Europa federata, vv.aa. (2/3)

Missione europea del socialismo

di Ignazio Silone

(prima parte)


Per misurare il regresso da noi subito – se non altro nell’impostazione dei problemi – in questi soli due anni trascorsi dalla fine della guerra, basti ricordare il fervore quasi unanime che allora suscitava nei movimenti di resistenza dei vari Paesi l’idea di una non lontana unificazione politica dell’Europa. L’idea della Federazione europea, certo, era tutt’altro che nuova, ma, per la prima volta, essa svegliava in noi un’emozione che simili formule politiche di per sé non danno se non quando stanno per realizzarsi.
Nell’estate del 1941 avemmo sentore di un manifesto elaborato da un gruppo di confinati politici nell’isola di Ventotene. Poco più tardi ricevemmo un appello analogo dal Movimento “Libérer et Fédérer” di Tolosa, nel quale militava anche il nostro caro e indimenticabile Silvio Trentin. Più tardi conoscemmo appelli e testi analoghi che provenivano da gruppi francesi di “Conbat”, “France Tireur” e di “Liberté”, dal Movimento del lavoro libero di Norvegia, dal Movimento Vrij Nederland in Olanda e anche da sparsi gruppi di tedeschi antinazisti, alcuni dei quali pagarono con la vita la loro avversione alla tirannia.
A questi gruppi di combattenti clandestini diedero un’espressione universale personalità conosciute come Albert Camus, Jacques Maritain, Thomas Mann ed altri. E più tardi, ma prima ancora della fine della guerra, l’uno dopo l’altro i partiti politici in via di riorganizzazione, i socialisti, i cattolici, i democratici radicali, i liberali, presero anch’essi posizione favorevole ad una rivendicazione immediata dell’unione europea.
Di quelle molteplici voci, assai recenti nel tempo – e che tuttavia suonano affievolite come se decenni ci separassero da esse – io voglio ora ricordarne particolarmente una: quella di Eugenio Colorni ucciso dai nazi-fascisti qui a Roma, pochi giorni prima della liberazione, mentre si recava in una tipografia clandestina in cui si stampava “L’Avanti!”, di cui egli era redattore.
Certamente è utile per tutti evocare questi nomi; essi aggiungono gravità ed elevatezza al nostro incontro di oggi. La testimonianza di Colorni ha d’altronde un valore più che individuale, perché nell’inverno 1944 egli redasse una dichiarazione, con la quale l’intero socialismo italiano si dichiarò federalista. Vale la pena di ricordarne alcune affermazioni, per gli immemori.
“I socialisti italiani – scrisse dunque Colorni – vogliono che dalla pace che seguirà alla presente guerra siano poste le basi solide di un ordinamento che tenda a creare una Federazione libera degli Stati Europei”.
E dopo aver spiegato, in termini analoghi a quelli qui esposti poco fa, dall’amico Calamandrei, che cosa fosse da intendersi per federazione di liberi Stati europei, egli aggiungeva: “I socialisti italiani ritengono che questa prospettiva – che poteva sembrare un lontano ideale ancora pochi anni fa – si troverà nel periodo che seguirà la presente guerra molto prossima alla sua realizzazione e sono convinti che tale mèta è strettamente collegata ai fini che essi si propongono in quanto socialisti, giacché la formazione di un’unità federale europea sarà evento di tale portata rivoluzionaria, da non poter avvenire se non con l’attivo concorso delle masse e nell’ambito di un profondo e generale rinnovamento sociale del nostro Continente. Per l’Italia, come per tutti i popoli che usciranno vinti da questa guerra, una tale soluzione costituirebbe, tra l’altro, l’unico modo di evitare la sconfitta, la mutilazione territoriale, lo aggiogamento economico. Il Partito Socialista Italiano ritiene che proprio l’atteggiamento delle masse possa avere un’elezione decisiva a questo proposito, creando situazioni di fatto di cui i vincitori non potranno non tener conto, provocando episodi e contribuendo a far precipitare la situazione internazionale, nel senso dell’unità europea”.

 

A rileggere oggi queste parole suggerite da Eugenio Colorni al socialismo italiano sembra di ricordare un sogno di un’alba di primavera. Sono parole scritte appena tre anni fa; ma, confrontate con le nostre attuali condizioni, esse ci sembrano assai più remote.

La loro rievocazione deve pertanto servire a stabilire le dimensioni del nostro distacco dagli ideali e dai propositi del tempo della liberazione. Sembra quasi che stia per avverarsi una scherzosa profezia di un alto prelato romano, che alcuni di voi forse già conoscono. Dopo la marcia su Roma delle camicie nere, il cardinale Gasparri, allora Segretario di Stato, ricevette uno scrittore americano, il quale gli chiese quanto tempo, a suo giudizio, potesse durare il nuovo regime. E il cardinale, con la prudenza propria di tutti i profeti, rispose: “Potrà durare due anni, ma potrà durare anche due secoli”. Ma la curiosità dello scrittore americano non fu soddisfatta; egli insistè: E dopo due anni, o dopo due secoli, chi succederà a Mussolini?”. “Ah! In ogni caso, Giolitti”, rispose il cardinale senza esitazione.
Sono molti i quali accettano come definitivo l’avveramento di quella previsione; altri invece discutono se l’attuale regime non sia piuttosto da paragonare a quello di Depretis. Ad ogni modo la risposta scherzosa del prelato non era fondata soltanto sull’antico scetticismo cattolico verso la capacità democratica degli italiani; ma anche sulla esperienza che dopo le guerre e le guerre civili una stanchezza e apatia fatale minacciano di impadronirsi dell’opinione pubblica.
Vi è oggi nel nostro Paese un diffuso disorientamento, un tono di vita assai depresso, uno sterile accanirsi su questioni secondarie o fittizie. Corre un abisso tra i problemi veri ed essenziali del benessere e dell’incivilimento e le preoccupazioni quotidiane della maggior parte dei dirigenti della nostra pubblica opinione.
In queste nostre penose condizioni, parlare di nuovo agli italiani dell’unità europea equivale a porre un problema essenziale, un problema vero, autentico, fondamentale, distogliere un momento la loro attenzione dell’accanirsi in lotte deleterie per fini astratti o fittizi. E porre di nuovo con estrema energia questo problema equivale anche ad un richiamo ai sopravvissuti della Resistenza, ai delusi, agli assenti, a rivolgere ad essi e a noi una questione grave, la più grave per la coscienza di un uomo: “Al punto in cui siamo e considerata la piega che prendono le cose nel nostro Paese e nei Paesi vicini, che uso vogliamo fare della nostra vita?”.
Questo di oggi è il contrario, insomma, di un invito a rifugiarsi nel sogno e nell’astrazione, e non è la parola d’ordine settaria di un partito. Una ripresa della lotta per l’unità europea è una necessità di vita dei Paesi liberi del vecchio Continente; è la sola via della loro salvezza.
Alcune melanconiche constatazioni dianzi esposte non mettono in dubbio, si capisce, la buona volontà dei protagonisti. La gravità della situazione, infatti, è ammessa da tutti; universale è l’apprensione per la fragilità di questa pace. Vi è perfino attualmente una gara tra i partiti a chi si dichiari più pacifista degli altri. Ma, non dobbiamo nascondercelo, è ancora un pacifismo indeterminato, non alieno dalle tradizionali debolezze del vecchio inconcludente pacifismo. Che significa praticamente una lotta per la pace se non è una sincera buona volontà di tutti i giorni per risolvere i contrasti dai quali può scaturire la guerra? Non esiste una lotta particolare contro la guerra, separata da una giusta e coraggiosa politica generale.
Sarebbe ozioso, io penso, attardarsi ora a una nuova critica del vecchio pacifismo e delle sue insufficienze, ozioso ricadere nella disputa sulla sua premessa dottrinaria,inaccettabile a quanti sentono che vi sono valori la cui difesa può giustificare il sacrificio volontario. Ma in un senso più strettamente politico, è doveroso almeno ribadire che il pacifismo non soddisfa nessuno il quale voglia realmente allontanare il pericolo di nuove guerre, perché nelle sue astratte formulazioni si ritrova bensì l’immagine seducente di un’umanità affratellata, però non l’indicazione precisa e concreta delle vie, dei mezzi, delle forze che a quella possono condurre, né l’indicazione degli ostacoli da abbattere. La divisa dei veri pacifisti, pertanto, non può che essere che questa: “Se vuoi la pace, prepara le condizioni per la pace”; le condizioni politiche, economiche, sociali.

 

Ora a questo riguardo è particolarmente grave e doloroso di dover constatare che si trovano al di fuori e lontane da una vita realistica di una concreta lotta per la pace anche quelle forze che sarebbero da supporre in casa le più interessate; alludiamo alle organizzazioni del movimento operaio e ai partiti socialisti.
La storia è stata generosa col socialismo. Dopo il fallimento del 1919-23 essa gli ha offerto un’occasione di rivincita. Ma non sembra ch’esso intenda trarne profitto. L’attuale smarrimento ed inefficienza del socialismo sul piano europeo non è forse da spiegare forse unicamente o prevalentemente con la deficienza degli uomini. Il fatto è che il socialismo si è trovato nella nostra epoca coinvolto in una trasformazione dello Stato e della vita politica, che ne ha enormemente accresciuto le possibilità materiali, privandolo, però, di alcuni suoi requisiti più positivi. Noi abbiamo assistito ad un lungo processo, durato decenni, che si può chiamare la socializzazione dello Stato; il suo corrispettivo è stato però la nazionalizzazione del socialismo (e dico nazionalizzazione quasi nel senso tecnico che la stessa parola ha nelle espressioni analoghe di nazionalizzazione del carbone o dei trasporti).
Non ho bisogno di dilungarmi per ricordarvi come e perché ciò sia avvenuto. La crisi mette in pericolo il profitto dei capitalisti, il salario degli operai e la rendita degli agricoltori. L’esigenza di una sicurezza economica e sociale viene perciò avanzata da tutti i ceti senza distinzione e si rivolge oggi unanimemente allo Stato. E questo ha prodotto negli ultimi anni risultati assai gravi. Uno di essi è che ovunque hanno avuto luogo riforme di struttura, esse sono state operate nei limiti nazionali, con carattere nazionale, e con la tendenza a rafforzare il legame di tutti i ceti ai particolari interessi nazionali. Un altro risultato è che lo Stato nazionale non è più considerato dal popolo uno strumento di oppressione, un ostacolo allo sviluppo sociale, uno strumento da riformare o da distruggere, o le cui prerogative debbano essere limitate a profitto d’istituzioni sociali, sebbene come il solo garante e responsabile di ogni sicurezza, a cui bisogna lasciare ogni potere. Ma poiché la crisi economica non ha cause e limiti nazionali, i rimedi nazionali non fanno che aggravarla e ogni serio contrasto economico turba i rapporti tra gli Stati.

Lo Stato nazionale, questo anacronismo del XX secolo, ha ricevuto, dunque, poteri inauditi proprio nell’epoca storica che doveva assistere al suo assorbimento in formazioni politiche più vaste. Il suo potere è mostruoso. La ripartizione del profitto economico non dipende più, come voi sapete, dal contributo che gl’individui e i ceti danno alla produzione, ma dalle leggi dello Stato. Cosicché, se una volta poteva apparire a molti che una via sicura per arrivare ad avere autorità fosse la ricchezza, oggi è palese a tutti che per arrivare alla ricchezza la via più breve e sicura è quella del potere. D’altro canto le stesse categorie lavoratrici vengono compensate non per la qualità o le fatiche che richiede la prestazione della loro opera, ma in misura

(4. segue)

Missione europea del socialismodi Ignazio Silone

(seconda parte)

Lo Stato nazionale, questo anacronismo del XX secolo, ha ricevuto, dunque, poteri inauditi proprio nell’epoca storica che doveva assistere al suo assorbimento in formazioni politiche più vaste. Il suo potere è mostruoso. La ripartizione del profitto economico non dipende più, come voi sapete, dal contributo che gl’individui e i ceti danno alla produzione, ma dalle leggi dello Stato. Cosicché, se una volta poteva apparire a molti che una via sicura per arrivare ad avere autorità fosse la ricchezza, oggi è palese a tutti che per arrivare alla ricchezza la via più breve e sicura è quella del potere. D’altro canto le stesse categorie lavoratrici vengono compensate non per la qualità o le fatiche che richiede la prestazione della loro opera, ma in misura dell’influenza politica che esse esercitano sui poteri statali.
Quanto più, dunque, aumenta l’importanza della condizione nazionale per l’esistenza materiale dei singoli e delle classi aumentano d’importanza le differenze nazionali stesse, fino ad arrivare ad una totale identificazione. Questa identificazione nella nostra epoca si è chiamata “nazional-socialismo”; essa resta tale, resta degna di questo nome famigerato, anche se lo stesso concetto è inconsapevolmente accettato e ripetuto da socialisti sedicenti marxisti.
In altri Paesi,m come voi sapete, questo fenomeno è ancor più evidente che nel nostro; il socialismo si è lasciato facilmente annettere allo Stato nazionale, che ne ha avuto bisogno per le sue nuove funzioni nei rapporti con le masse. Così il socialismo, anche in questo dopoguerra, o almeno nei primi anni successivi alla guerra, è mancato nuovamente alla sua funzione storica ed è caduto vittima delle soluzioni meramente nazionali.
Nei Paesi europei dove si è molto nazionalizzato, è ora diffuso il riconoscimento che sia grave errore di assimilare il socialismo con la nazionalizzazione, benché questa, in certi casi, naturalmente, sia utile e non da escludere.
E’ un fatto però che le nazionalizzazioni in alcuni casi si sono rivelati altrettanto antieconomiche e parassitarie delle precedenti imprese private. E’ stata misura necessaria e indilazionabile la nazionalizzazione del carbone inglese; ma non è certo un progresso parlare di carbone francese, di carbone belga, di carbone olandese, di carbone tedesco e affidarne la gestione agli impiegati di Stati rivali. Non è un progresso, ripeto, in nessun senso, perché ciò non corrisponde né ad un dato naturale, Né ad una necessità tecnica, né ad un vantaggio sociale. Sono sopraffazioni egoistiche a danno dell’interesse generale.
Malgrado questi errori, malgrado che il socialismo attualmente si dibatta nei civoli ciechi della politica nazionale, tuttavia è su di esso, è sulle sue riserve, sulle sue possibilità ancora inespresse che bisogna principalmente contare nell’inventario delle forze motrici per la ricostruzione e l’unificazione del nostro Continente. La nostra fiducia è giustificata perché la vera forza, la forza inesauribile del socialismo, non è nella psicologia, sovente assai mediocre, dei suoi dirigenti, ma nella condizione proletaria in seno alla società moderna. E se il socialismo, malgrado tutti i suoi disastri, malgrado la sua decennale sparizione forzata dalla scena della politica, è tornato ad essere il fattore principale della vita politica di vari paesi, è appunto per questo: la sua vitalità è legata a qualche cosa di permanente e di in distruggibile della società moderna. La forza proletaria, la condizione proletaria nella società moderna, resta pertanto la leva decisa di ogni rinnovamento politico e sociale. Se essa viene a mancare, c’è poco da sperare.
Presentare oggi come necessaria ed urgente una lotta per un’impostazione europea dei nostri problemi fondamentali, equivale dunque, in primo luogo, a rivolgere un appello al socialismo, equivale a richiamare il socialismo alla sua storia, alla sua natura, alla sua versa missione, ad ammonire il socialismo a non vendere i diritti della sua primogenitura per una scodella di lenticchie.
La funzione internazionale del movimento socialista è oggi una immediata ed urgente necessità europea.
La vera questione non è oggi se i popoli europei debbano migliorare la propria sorte mettendosi assieme, oppure se debbano conservare la propria attuale sovranità. La questione è se essi debbano cercare di sopravvivere, mettendosi assieme, oppure uno dopo l’altro, ognuno a modo suo, sparire. E questo vuol dire che essi perderanno ugualmente la propria sovranità, chi in un modo, chi in un altro; ma non volontariamente, con l’adesione ad una formazione statale superiore in cui entrerebbero su un piede di uguaglianza, ma decidendo inevitabilmente nella condizione umiliante de i protettorati e delle colonie. In molti Paesi, come voi sapete, questo è già avvenuto, e l’assoluta sovranità statale, alla quale non si vuole rinunciare, vi è mera apparenza.
Nella valutazione dei partiti politici vi saranno dunque molti giudizi da rivedere, appena saranno saggiati alla pietra di paragone di concrete iniziative per l’unità europea o per la federazione di gruppi di popoli europei. Le attuali designazioni di “destra” e di “sinistra” appariranno allora etichette arbitrarie.
Questo concetto io l’ho ritrovato espresso con grande chiarezza in un manifesto del gruppo di Ventotene, al quale ho già fatto allusione. “La linea di divisione tra i partiti progressisti e partiti reazionari – venne detto in quel manifesto – cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo e risorgere le vecchie rivalità, e quelli che, invece, vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale e indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lk’adopereranno in primissima linea come strumento per la realizzazione dell’unità internazionale”.
In questa manifestazione iniziale è forse anche necessario confutare brevemente alcune obiezioni preliminari. Una di esse, la pià ovvia, è che bisognerebbe rinviare le grandi riforme politiche a tempi migliori. Gli uomini, ci si dice, hanno ora bisogni più urgenti: il nutrimento, la casa, il vestiario. E questo è un argomento illusorio, perché i grandi mutamenti della storia sono stati sempre compiuti in mezzo ai disastri, sono stati sempre opera di uomini affamati, di uomini senza casa, di uomini senza scarpe; nessun grande avvenimento storico è stato opera di un popolo felice, d’un popolo soddisfatto, contento di se stesso.
Un’altra obiezione viene talvolta da persone intimamente persuase della necessità di un superamento delle anacronistiche sovranità nazionali, ma le quali temono i mutamenti di qualsiasi specie, per paura di un peggio non troppo ben definito. Tra questi timidi sono anche da annoverare gli intellettuali e le persone di cultura, che temono per la sorte dei cosiddetti valori spirituali. Ad essi bisogna innanzitutto ricordare le parole di Proudhon: “Il solo mezzo di evitare una rivoluzione è di farla”. Il solo mezzo di evitare le false soluzioni, le soluzioni violente, le soluzioni estreme, è di soddisfare gli stessi bisogni da cui quelle scaturiscono, e di soddisfarli con soluzioni giuste, con soluzioni migliori.
Dipende dall’unità e dall’indipendenza del continente europeo se la rivoluzione della nostra epoca – oltre alle forme già note e temute della tecnocrazia e del collettivismo burocratico – ne conoscerà anche una in cui le necessità del benessere collettivo siano armonizzate con i valori culturali del passato, con i valori tutt’altro che superiori, o superabili, della Grecia, del Cristianesimo e della rivoluzione liberale.
Nella misura in cui ai popoli di Europa riuscirà di superare gli egoismi nazionali per una ricostruzione più economica, più nazionale del continente, nella misura in cui ad essi riuscirà di salvaguardare la democrazia e la libertà politica, pur nell’adozione di forme assai spinte di economia pubblica, essi creeranno un modello esemplare per tutti gli altri popoli della terra, essi affermeranno un primato, che non sarà di tipo militare o materiale, ma un primato di civiltà, secondo la tradizione europea, che è quella di adattare incessantemente alla misura dell’uomo e della sua dignità le condizioni esteriori dell’esistenza.
Servendo la causa dell’unità europea, noi sappiamo perciò di rendere un servizio anche ai popoli degli altri continenti: fare una politica su scala europea, significa per noi fare una politica mondiale.
Noi ci troviamo ora in una situazione tragica che mi ricorda talvolta quella dei minatori di un bellissimo film tedesco dell’altro dopoguerra: “Kameradschaft”. Vi sono in Renania vaste zone carbonifere che si estendono, senza soluzione di continuità, al di qua e al di là della frontiera; i segni della separazione degli Stati sono posti non soltanto alla superficie della terra e sulle vie di traffico, ma anche – per mezzo di robuste inferriate – nelle stesse gallerie sotterranee di scavo. Un giorno, dunque, avvenne in una galleria, un terribile scoppio di grisou: l’incendio si propagò nei vari cunicoli, immobilizzò gli ascensori, rese impossibili e pericolosi i tentativi di soccorso dall’esterno. Allora, non senza pericolo di sé, senza chiedere permesso ad alcun commissario di polizia, si scagliarono contro le inferriate che separavano la frontiera sotterranea, le scardinarono e salvarono dall’asfissia i loro compagni.
Noi siamo minacciati dalla stessa morte, se non abbattiamo la cortina di ferro della miseria e delle sovranità nazionali.

Per finire, ho da dirvi solo questo: se non faremo l’Europa, la nostra generazione potrà considerarsi fallita.

(5. segue)

La unificazione del mercato europeodi Luigi Einaudi

 Debbo parlarvi dell’ideale federativo dal punto di vista economico. Forse questo è l’aspetto che mette più vivamente in luce l’assurdità del presente sistema dei piccoli Stati europei.
L’americano il quale capiti oggi in Europa rimane sorpreso ed infastidito così come poteva essere infastidito, se non sorpreso, un francese o un inglese il quale viaggiasse in Italia tra il 1814 ed il 1860. Abituato a trascorrere dall’Atlantico al Pacifico, attraverso 48 Stati diversi e qualche territorio non ancora diventato Stato, senza essere costretto ad ogni piè sospinto a mostrare passaporti, a documentare visti, a sottoporsi a fastidiose visite doganali e ad essere frugato addosso per sorprendere eventuali violazioni valutarie, l’americano medio esclama: Che razza di gente sono questi europei i quali non si sono ancora accorti che noi non viviamo nel tempo delle diligenze, dei traffici lenti su carri e muli, della corrispondenza inviata casualmente per mezzo di amici o di conoscenti? Non si sono ancora accorti che tutto il mondo oggi e legato non solo dalle ferrovie e dalle navi a vapore o da motonavi; ma è unificato economicamente dal telegrafo e dal telefono con o senza fili e dai velivoli, i quali attraversano monti e mari, con velocità di centinaia e presto di migliaia di chilometri all’ora? Che sorta di follia collettiva è mai questa per cui dopo aver speso miliardi di lire buone per traforare le Alpi, per approfondire e attrezzare porti, per avvicinare paesi con ferrovie, c anali navigabili, aeroporti, gli europei ad ogni piè sospinto mettono gente armata per impedire agli uomini e alle cose di attraversare le Alpi, di utilizzare i porti, di sfruttare le ferrovie ed i velivoli?
Lo stravolgimento mentale degli europei è veramente inesplicabile. Siamo tutti persuasi che oggi, allo stato attuale della tecnica agricola, delle risorse minerarie e degli impianti industriali, c’è forse un milione di uomini di troppo in Italia. Non è escluso che, domani, la terra italiana possa impiegare più uomini d’ora. Io non credo che ciò sia probabile e neppure vantaggioso; chè, alla lunga, progresso vuol dire far produrre alla terra di più con minore fatica e quindi con minore impiego di mano d’opera. Ma non è affatto escluso che la industria italiana, compresa quella trasformatrice dei prodotti agricoli, possa impiegare domani qualche milione di lavoratori più d’oggi. Per il momento, è un fatto certo che vi sono in Italia all’incirca 1.200.000 disoccupati. Ed è un fatto certo che la Francia, che la Svizzera, che il Belgio, che l’Inghilterra sono affamati di lavoratori; e che esistono in quei Paesi risorse attuali le quali non possono essere utilizzate per mancanza del fattore lavoro. Se l’Europa fosse unificata economicamente, una parte, non dico tutti, dei 1.200.000 disoccupati italiani si trasferirebbe là dove essi potrebbero essere impiegati, con vantaggio proprio, con vantaggio dell’Italia, sottoposta a meno duri sacrifici di imposte per lenire la disoccupazione permanente ed invernale, e con vantaggio dei Paesi di immigrazione, dove crescerebbe la produzione dei beni e diminuirebbe la urgenza di aiuti da oltre Atlantico.
Chi s’aiuta Dio l’aiuta, ripete senza volerlo quel tale americano. Noi sentiamo il dovere e l’interesse di aiutare l’Europa immiserita; ma perché gli europei non cominciano collo sbatter giù le barriere doganali, le divisioni anacronistiche le quali riducono la produzione di quei beni di cui gli europei hanno tanta urgente necessità?
Le condizioni della vita moderna hanno, infatti, ridotto gli Stati europei, ad eccezione della Russia, a minuscole entità economiche, nelle quali l’attività economica incontra ostacoli insuperabili.
La piccolezza dei mercati, infatti: limita la divisione del lavoro, sicché le imprese economiche sono costrette a dimensioni inferiori a quella che sarebbe la dimensione ottima in un mercato più ampio, nel quale i consumatori invece di essere 45 milioni fossero, per limitarci alla popolazione degli Stati partecipanti alla conferenza di Parigi, 250 milioni; favorisce il monopolio delle imprese nazionali, le quali, assicurate dai vincoli al commercio contro la concorrenza straniera, possono più facilmente mettersi d’accordo per limitare la produzione; tende all’aumento dei prezzi ed all’incremento dei profitti dei produttori protetti; cosicché non solo la produzione dei beni viene ridotta e quindi viene ridotto il reddito nazionale, ossia la torta comune da dividere tra tutti gli uomini, ma il reddito o torta viene malamente diviso, condanno dei più ed arricchimento dei pochi.
Gli effetti dannosi del frazionamento dell’Europa in microscopici mercati sono oggi assai maggiori di quel che non fossero innanzi al 1914. In quegli anni lontani ho avuto l’onore di combattere insieme con alcuni pochi uomini testardi, primissimi fra tutti Edoardo Giretti, Antonio De Viti De Marco, Attilio Cabiati, Maffeo Pantaleoni, contro il protezionismo doganale. Dopo trent’anni debbo confessare, forse unico superstite di quella schiera, di aver perduta la battaglia. Oggi il protezionismo è assai più maligno d’un tempo. Ai dazi doganali, che quasi quasi noi siamo indotti, per uno di quegli scherzi così frequenti della storia, a considerare con occhio benevolo, si sono aggiunte invenzioni diaboliche come: contingenti, le liste di prodotti di cui è vietata od è sottoposta la licenza d’importazione o l’esportazione, le restrizioni valutarie che frastornano e distruggono assai più il commercio internazionale e quindi distruggono la capacità produttiva e inaspriscono la nequizia monopolistica in misura assai più grave di quel che facessero i tanto da noi vilipesi dazi protettivi.
Quel che vogliamo noi federalisti è dunque l’abolizione delle frontiere economiche fra Stato e Stato. Vogliamo cominciare dall’Europa occidentale, ben sapendo che questo è un primo passo verso unificazioni più ampie. Ma deve essere ben chiaro che l’abolizione delle frontiere economiche non ha senso se accanto alla libertà di movimento delle cose, delle merci e derrate materiali, non si avrà anche la libertà di movimento degli uomini. Potranno sì, essere posti limiti temporanei, e taluno forse permanente, al libero movimento di uomini, sui quali qui sarebbe troppo lungo intrattenerci; ma quella deve essere la mèta.


La libertà di movimento delle cose significa passaggio ad un’unica autorità federale della potestà legislativa riguardo al commercio internazionale. Nello stesso modo come la nuova costituzione italiana ha sancito il divieto alle regioni, alle provincie ed ai comuni di porre qualsiasi impedimento al libero movimento delle cose entro il territorio nazionale, così la accettazione del principio federativo significa divieto ai singoli Stati sovrani di porre qualsiasi impedimento di qualsiasi specie al movimento delle cose fra uno Stato e l’altro.
Fa d’uopo esser ben chiari su questo punto. Federalismo è sinonimo di riduzione della sovranità economica di ognuno degli Stati federati: la potestà legislativa sulle dogane e sulle diavolerie moderne dei contingenti, dei divieti, viene trasferita dallo Stato singolo alla federazione. E viene trasferito qualcos’altro che è molto più dello stesso regolamento del traffico internazionale: il diritto cioè di stampare moneta di carta.

 

Il problema è straordinariamente complicato; ma è chiaro che sarebbe inutile proclamare la libertà del commercio fra Stato e Stato, se poi ai cittadini di ogni singolo Stato fosse negata la facoltà di fare liberamente pagamenti per le merci acquistaste o vendute. Questa facoltà sarebbe illusoria se ai singoli Stati fosse consentito di far ballare, come succede oggi, il ballo di San Vito alla propria moneta cartacea; e quindi fosse consentito di regolare le quantità di divise nazionali ed estere da scambiare.
Federalismo vuol dire tante altre cose oltre quelle che ho accennato; ma vuol dire certamente abolizione del diritto di ogni singolo Stato di emettere carta moneta. Così come oggi non è lecito ai singoli comuni e provincie, e domani non sarà lecito alle regioni, di istituire proprie Banche di emissione, così nel futuro Stato federale europeo dovrà esistere un solo istituto di emissione.
Per salvare la faccia ai singoli Stati si potranno inventare palliativi apparenti; ma fa d’uopo affermare che senza una unica moneta lo Stato federale non potrà esistere. Il che avrà per risultato che gli Stati singoli non potranno più, come oggi non possono comuni e provincie in Italia, ricorrere al torchio dei biglietti per far fronte al disavanzo dei loro bilanci. Sarà colpita a morte la illimitata sovranità finanziaria dei singoli Stati.
Io credo che la limitazione sarà di grande vantaggio all’economia dei singoli Stati ex-sovrani. Altri potrà nutrire opinione diversa; e perciò è chiaro che l’ideale federalista non è cosa da prendersi alla leggera. La sua attuazione incontrerà ostacoli ed opposizioni formidabili; ed è tanto più necessario guardarli in faccia. Se noi vogliamo evitare le guerre, od almeno una parte di esse, dobbiamo sapere quali sono le difficoltà che si dovranno superare per ottenere il bene massimo della pace.
Le difficoltà sono soprattutto, a parer mio, ideologiche. Noi siamo ancora abituati a parlare un linguaggio strano in materia di rapporti internazionali economici; anzi a pensare in termini di guerra col nemico, invece che di rapporti coll’amico.

 

Si parla ancora di “invasione” delle merci straniere, le quali verrebbero alla “conquista” dei nostri mercati; come se le merci estere fossero simili ai soldati di un esercito nemico, il quale vuole distruggere la nostra indipendenza. Chi non vorrebbe, in verità, veder invasa la propria casa da merci e derrate a buon mercato? E come può immaginarsi che taluno “invada” con merci la nostra casa se noi non siamo disposti, nell’interesse nostro, a fare all’invasore merci e servizi a noi sovrabbondanti?
Ed ancor si parla di “inondazione” delle merci estere le quali sommergerebbero il territorio nazionale. Dio volesse che queste “inondazioni” fossero più frequenti ed estese di quanto non siano! Anche qui si tratta di un traslato poetico. Trasportiamo la parola dal campo delle acque straripanti e dannose in tempi di piena al campo economico, dove la parola non ha senso. Chi non vorrebbe vedersi inondato, anche gratuitamente, di cose inutili alla nostra vita? Celebre è rimasta la petizione, scritta da Federico Bastiat, dei fabbricanti di candele di sego e di cera, di lampade, lampadari e bugie contro un concorrente sleale, il quale inondava il mercato con un suo prodotto ottenuto a costo zero, sicché i petizionanti vedevano ristretta la domanda dei loro prodotti ad una piccola parte di quella che giustamente sarebbe stata. Epperciò i petizionanti chiedevano un secolo fa alle Camere francesi di emanare una brava legge atta a frenare la inondazione, compiuta dolosamente senza richiesta di alcun prezzo, da parte dello sleale concorrente. E questo era il sole, contro cui si invocava l’arma secolare della legge, la quale avrebbe dovuto ordinare la chiusura di tutte le finestre, abbaini e spiragli, attraverso a cui la maledetta luce del sole si introduceva a nocumento e rovina della gloriosa antica industria dei fabbricanti di candele di sego e di cera, di lampade, lampadari, bugie, ecc., ecc.

 

Ed ancora, quando partono da una capitale negoziatori di trattati di commercio, essi hanno in testa di “difendere” il loro paese contro le merci estere e chiedono “armi” per trattare da paro a paro con negoziatori “nemici”. E le armi chieste sono il diritto di imporre alle merci estere alti dazi, ove lo straniero non abbassi i propri. E ciò si chiama reciprocità; come se la cosiddetta reciprocità non riposasse sulla idea balorda che sia possibile “difendere” il concittadino arrecandogli il sicuro danno di aumentare il prezzo delle cose che egli deve acquistare, e come se fosse evidente che a scemare il danno dello schiaffo datoci dallo straniero coll’impedire, con i suoi dazi, le nostre importazioni, giovasse infliggere a noi stessi un altro schiaffo, col rincarare il prezzo delle merci estere e quindi delle merci nazionali che noi desideriamo di acquistare.
Eppure questo grottesco linguaggio bellico è ovvio, è naturale, è fatale sinchè nella nostra testa noi coltiviamo e adoriamo l’idolo dello Stato sovrano assoluto. Sinchè non renderemo omaggio al nemico numero uno dell’umanità, che è l’idea dello Stato sovrano assoluto, noi dovremo rassegnarci alle guerre economiche internazionali, guerre di parole vane e di fatti atroci.
Perciò noi non possiamo avere fiducia nei consessi internazionali di Stati sovrani.
Nel 1917 combattei l’idea, non ancora attuata, della Società delle Nazioni; e seguito a ritenere vana la medesima idea anche se essa ha cambiato nome. Noi non possiamo sperare che, attraverso negoziati fra Stati sovrani, si giunga a qualsiasi risultato tangibile di unificazione del mercato economico europeo. Le discussioni non saranno certo inutili e perciò noi dobbiamo favorire la inclusione del problema nei programmi dei negoziati internazionali; e bene il governo italiano ha operato, a parer mio, a farsi antesignano e promotore di una politica europea, al di là delle egoistiche politiche nazionali ad occasione dei convegni per il piano Marshall. Ma non illudiamoci. Trattative impostate sulla base della conservazione della sovranità piena degli Stati odierni sono destinate al fallimento. Fallirono in passato e falliranno in avvenire.
Fallirono tra il 1776 e il 1787 in America, sicché le 13 antiche colonie pretendevano di conservare la sovranità doganale; e l’unificazione trionfò solo quando il generale Washington, coll’ausilio del Madison, del Jay, del Jefferson, persuase i 13 Stati a rinunciare a questa come ad altre parti della loro sovranità.
Fallirono in Germania, sinchè una Prussica, allora governata da uomini illuminati, non costrinse gli Stati del Nord a rinunciare alla sovranità doganale ed a costituire nel 1833 lo Zollverein, condizione e foriero della unità germanica.

 

Fallirono in Italia,m dove dal 1770 al 1860 invano si discusse di unioni doganali da uomini insigni come Galiam Nazione, Prospero e Cesare Balbo, Carlo Cattaneo ed altri insigni di tutte le parti d’Italia (ed un libro sul Programma nazionale italiano del Ciasca dà la storia di quelle discussioni); ma invano si discusse sinchè la spada di Vittorio Emanuele e di Garibaldi non unificò l’Italia politicamente e perciò economicamente.
Nella unificazione economica europea per trattative fra Stati sovrani è impossibile aver fiducia.

Occorre che i popoli, in una di quelle misteriose maniere di cui è feconda genitrice la storia, consapevoli delle difficoltà dell’impresa e degli incommensurabili vantaggi che essa è destinata a produrre, impongano la loro volontà ai governanti, sempre timidi – e sia data venia per la umana esitazione – nel rinunciare ad una parte dei profitti sovrani della loro nazione.

(6. segue)

 

 

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