´Ho scelto la nonviolenza´, intervista a Jean-Marie Muller

Intervista a Jean-Marie Muller

Come si è già ricordato (“N.R.” del 19 e del 20 aprile), Jean-Marie Muller è uno dei più autorevoli esponenti della nonviolenza a livello internazionale. Su questo tema ha scritto “L’Evangile de la nonviolence” e “Stratégie de l’action nonviolente”. La lunga intervista che segue – rilasciata in origine alla rivista “Dimensioni Nuove” e pubblicata nel febbraio-marzo 1973 – costituisce a giudizio dello stesso Muller una presentazione organica e completa del problema della nonviolenza. Muller affronta alcuni problemi scottanti: nonviolenza e pacifismo; nonviolenza e aggressività; la strumentalizzazione della nonviolenza da parte del potere; la nonviolenza e la lotta di classe e rivoluzione. “Ho preso coscienza della nonviolenza”, dice Muller, “al momento della guerra in Algeria”.

Domanda: Lei ha lasciato l’insegnamento della filosofia per darsi interamente alla ricerca sulla nonviolenza. Come è sorta la sua vocazione alla nonviolenza? In quali circostanze concrete?

Muller: All’inizio di ogni strada verso la nonviolenza c’è una presa di coscienza della violenza. Certo, viviamo in un mondo pieno di violenza ma, in realtà, queste violenze non fanno problema per noi perché le guardiamo con gli occhi dell’abitudine e sappiamo a memoria le spiegazioni che dobbiamo loro dare. Insomma, noi viviamo in un universo in cui tutte le violenze che ci cadono sotto gli occhi sono piazzate al loro posto giusto, un posto assegnato loro dalle tradizioni di cui siamo gli eredi. Siamo talmente abituati alla violenza che non abbiamo coscienza di ciò che essa è realmente.

Bisogna aver vissuto un’esperienza personale legata a un avvenimento particolare per uscire da questa abitudine e prendere coscienza della violenza come di una contraddizione radicale nei confronti delle aspirazioni umane più profonde che ci spingono verso la giustizia, la libertà, la felicità per noi stessi e per gli altri. A partire da questo momento, da questa presa di coscienza, la violenza diventa il segno dell’assurdità del nostro destino e della storia degli uomini e non possiamo più darle nessuna giustificazione. Siamo già entrati nella via della nonviolenza.

Per quanto mi riguarda, ho preso coscienza della violenza al momento della guerra in Algeria. Questa guerra si è trovata sulla mia strada quando ero studente e, benché in questo tempo io fossi molto poco politicizzato, mi è parso con sempre maggiore chiarezza che non fosse una guerra giusta. Ho capito allora che la violenza degli uni e degli altri, si trattasse delle misure per “il mantenimento dell’ordine” dell’esercito francese – si sa oggi che la tortura fu praticata in maniera sistematica – o si trattasse delle azioni di guerriglia condotte dagli algerini o si trattasse infine di azioni terroriste organizzate dai francesi d’Algeria, ho capito – dicevo – che tutte queste violenze non erano in grado di portare una soluzione umana ai problemi umani che erano emersi in Algeria. D’accordo, non possiamo certo mettere sullo stesso piano tutte queste violenze e pretendere di condannarle tutte con lo stesso metro. Gli algerini potevano invocare con ragione la legittima difesa e sottolineare che la lotta per l’indipendenza del loro paese era una causa giusta, mentre la violenza di cui il governo francese aveva la responsabilità si spiegava innanzi tutto con la volontà di conservare i privilegi acquistati al tempo dell’era coloniale.

Ma in fin dei conti la violenza, anche quando era al servizio di una causa legittima, mi sembrava sempre più ingiustificabile. Tuttavia in quel tempo io ero del tutto incapace di fare un’opposizione fondamentale, per la nonviolenza che conoscevo molto male, e che non mi sembrava in grado di offrire risposte costruttive ai problemi aperti. Per questo, di fronte all’obbligo del servizio militare cui ero tenuto, decisi di assumere il massimo di responsabilità e di diventare ufficiale nella speranza, dirò meglio soprattutto nell’illusione, di poter così ridurre un po’ gli eccessi della violenza. Tuttavia, dopo i lunghi mesi della mia formazione militare, giunsi in Algeria al momento del “cessez-le-fou” e non ho quindi avuto l’esperienza della guerra sul campo.

Ma laggiù ho potuto rendermi conto ancor meglio di quanto fosse stato alto il prezzo pagato perché l’Algeria giungesse alla sua indipendenza. Era evidentissimo che questo prezzo era stato troppo elevato – e questo da ambedue le parti in conflitto – perché non si imponesse la ricerca di altre soluzioni, diverse dalla violenza, per risolvere i problemi.

E’ allora che ho letto e studiato Gandhi: ho capito che non soltanto la nonviolenza era desiderabile, ma che era possibile. Diventato professore di filosofia, ho condiviso questa ricerca con degli amici e, qualche anno più tardi, ci siamo trovati in tre ex ufficiali di riserva a chiedere il beneficio dello statuto degli obiettori di coscienza. Avendo scoperto la nonviolenza, non potevamo più onestamente rimanere a disposizione del Ministro della Difesa Nazionale: dovevamo mettere la nostra situazione in accordo con le nostre idee. Non rifiutavamo affatto di essere solidali con la comunità nazionale a cui appartavamo. Ma rifiutavamo di essere complici nella preparazione della guerra. Volevamo continuare ad assumere le nostre responsabilità civiche, ma volevamo farlo secondo lo spirito, i principi e i metodi della nonviolenza.

Tuttavia, secondo le disposizioni attuali della legge francese, lo statuto di obiettore di coscienza non può essere accordato che a coloro che non hanno ancora fatto il servizio militare. Ci è stato quindi rifiutato. Abbiamo allora rispedito il nostro libretto al Ministro della Difesa. Per questo siamo finiti tutti e tre, nel gennaio del 1969, di fronte al Tribunale Correzionale di Orléans in cui siamo stati condannati a tre mesi di prigione con il beneficio della condizionale, a 1000 franchi di ammenda e a cinque anni di privazione dei diritti civili. Quest’ultima condanna ci è sembrata particolarmente grave perché mostrava chiaramente che le nostre società rifiutano ancora di riconoscere la scelta della nonviolenza come un contributo positivo a servizio della comunità e l’assimilano invece a un atteggiamento di passività e di viltà. Abbiamo quindi deciso di appellarci, ma la corte d’appello ha confermato la condanna. In seguito abbiamo respinto altri documenti militari e oggi siamo ancora nell’illegalità anche se beneficiamo di una impunità di fatto.

Questo processo, in cui è intervenuto a testimoniare in nostro favore monsignor Riobé, vescovo di Orléans, e Robert Buron, un ex ministro del generale De Gaulle, ha avuto un impatto notevole nella stampa e nell’opinione pubblica e, grazie ad esso, noi abbiamo potuto portare pubblicamente il problema della nonviolenza. E’ allora che ho cominciato a fare conferenze per presentare le prospettive offerte dalla nonviolenza. E siccome le richieste si facevano sempre più numerose e questo lavoro mi assorbiva un tempo sempre maggiore, ho dovuto, nel giugno del 1970, abbandonare il posto di professore per diventare a tempo pieno un militante della nonviolenza.

notizieradicali, 21-IV-10/...

Domanda: Simone Weil, che era stata molto vicina agli ambienti pacifisti tra le due guerre, parlava dell’ “errore criminale” del pacifismo. E si buttò nella resistenza violenta. Non sarebbe logico parlare anche dell’ “errore criminale” della nonviolenza? C’è differenza tra le due cose?

Muller: E’ vero che, in realtà, il pacifismo come si è espresso dopo la prima guerra mondiale, ha fallito quando è scoppiata la seconda. Perché? Perché il pacifismo si era limitato a una pura e semplice condanna della guerra senza cercare una vera alternativa alla guerra per risolvere i conflitti tra i popoli. Il pacifismo ha lasciato intendere che bastava liquidare gli eserciti per avere la pace. Il suo programma si riduceva a proporre il disarmo, ma questa non è una garanzia per la sicurezza di una comunità umana. La verità del pacifismo è di aver capito perché la violenza è disumana, ma il suo errore è non aver capito perché la violenza è umana, nel senso che è la ricerca, spesso leale e sincera, di una soluzione concreta a un problema concreto. La preparazione della guerra e la guerra stessa rispondono a un bisogno fondamentale delle società umane: il bisogno di sicurezza. Una comunità non può sopravvivere se i suoi membri non vivono con un senso di sicurezza di fronte a eventuali aggressioni. La guerra è apparsa finora come il solo mezzo per resistere a queste aggressioni e difendere la vita e la libertà degli individui. Per questo la coscienza collettiva dei popoli e più ancora il loro subcosciente collettivo, sono ancora così profondamente attaccati al concetto di difesa armata. Per questo il servizio militare è ancora nelle nostre società un dovere sacro per ogni cittadino, e l’obiettore di coscienza è ancora considerato un traditore e come tale dev’essere punito.

Ora il pacifismo, dicevo, dopo aver condannato la guerra non ha saputo offrire altri mezzi capaci di organizzare la resistenza contro l’aggressione e la difesa delle libertà. Per questo era condannato al fallimento e, di conseguenza, si comprende che Simone Weil, davanti all’aggressione nazista, sia passata nelle file della resistenza armata. La nonviolenza si differenzia fondamentalmente dal pacifismo in quanto ricerca e propone dei metodi grazie ai quali è possibile organizzare una vera difesa popolare non armata.

Oggi il disarmo non è possibile perché l’insieme degli individui ha fiducia nella violenza come mezzo per garantire la difesa della società. Se si realizzasse nel giro di 24 ore, domani per dire, il disarmo produrrebbe un profondo sentimento di frustrazione fra la popolazione che sarebbe presa dal panico e soffrirebbe di una crisi di vertigine davanti al vuoto militare che verrebbe a crearsi. Per questo la cosa più utile e feconda non è tanto di condannare le guerre quanto di permettere all’opinione pubblica di conoscere le possibilità concrete dell’azione nonviolenta.

Domanda: L’aggressività è una delle componenti essenziali dell’uomo, il carattere fondamentale degli esseri viventi, dicono i biologi. E’ difesa dalle minacce che lo attaccano, affermazione e costruzione dell’io. Ora l’aggressività si esprime spesso nella violenza. Spegnere l’aggressività con la nonviolenza non è spezzare una delle molle più forti della vita stessa?

Muller: Certo, se la nonviolenza puntasse a spegnere l’aggressività dell’uomo, finirebbe per mutilarlo. Ma, in realtà, la nonviolenza si fonda su un giudizio positivo dell’aggressività umana. Noi dobbiamo prendere coscienza che il nostro primo incontro con l’altro è un affrontement, un affrontarsi, un’opposizione. L’amicizia e la fraternità non sono relazioni naturali, sono una conquista. Di naturale, fra gli uomini c’è l’adversité, una certa avversione, e lo possiamo toccare con mano tutti i giorni. L’altro, il mio prossimo, il mio vicino, è anzitutto colui che mi mette in imbarazzo, mi scomoda; è colui la cui libertà minaccia la mia stessa libertà, io cui progetti vengono a contrastare i miei progetti. E io devo accettare questo momento di tensione, questo momento di conflitto attraverso cui saremo obbligati a conoscerci, a riconoscerci e a rispettarci. Ora l’aggressività è precisamente la forza grazie a cui accetterò di entrare in conflitto con l’altro per affermare la mia personalità Senza aggressività io avrei costantemente paura dell’altro, sfuggirei ogni situazione di conflitto e la mia personalità finirebbe per esserne disgregata, distrutta. Bisogna aggiungere che senza aggressività io sarei incapace di amare l’altro, perché è anche la forza della mia aggressività che mi porta ad incontrare l’altro per offrirgli la mia amicizia. Senza aggressività io vivrei costantemente nella rassegnazione sia alla mia sorte che alla sorte dell’altro: sarei nell’apatia e nell’indifferenza di fronte a tutti e a tutto.

L’aggressività è dunque buona e non si tratta affatto di reprimerla. Ma è un errore credere che debba normalmente esprimersi nella violenza. Al contrario, il comportamento adulto dell’uomo è segnato dal dominio e dal controllo della propria aggressività. La violenza è in realtà una debolezza ed è deplorevole che pensiamo spontaneamente che la violenza è una prova di forza di carattere e di virilità. Anzi, è il contrario che è vero. La collera, ad esempio, che è una forma di violenza, è propria di coloro che sono incapaci di dominarsi, di controllarsi. E’ una debolezza bell’e buona. La violenza è l’espressione più grossolana, più animale dell’aggressività. Per questo lo psicanalista americano Friedrich Hacker può scrivere: “La violenza è piatta, monotona. E’ il segno di una pigrizia di spirito, di mancanza di immaginazione. E poiché è la forma più primitiva, più regressiva dell’aggressività, è anche la più uniforme…Il successo della violenza è dovuto appunto al fatto che è semplice. Non è necessario essere intelligenti o immaginativi o avere un diploma per essere violenti. E’ alla portata di tutti”.

Pertanto la nonviolenza mira a mettere in azione l’aggressività dell’uomo o dei popoli attraverso azioni costruttive che permettono di evitare tutte le contraddizioni della violenza. Sottolineiamo ancora che la nonviolenza è l’opposto stesso della rassegnazione e della passività. Gandhi affermava spesso che se la scelta si ponesse esclusivamente tra viltà e violenza, sarebbe meglio scegliere la violenza.

notizieradicali, 22-IV-10/...

Domanda: Non esiste il rischio che la nonviolenza venga strumentalizzata e ricuperata dalle classi privilegiate per disinnescare la collera dei poveri e difendere interessi e privilegi minacciati? Che diventi, in altre parole, l’oppio dei popoli?

Muller: C’è infatti il rischio che si parli di nonviolenza per mantenere i poveri nell’oppressione. Ma è chiaro che non si tratta più della vera nonviolenza. I fautori dell’ordine stabilito si sono sempre serviti di una certa morale che condannava la violenza per imporre il loro dominio sui poveri. La morale ufficiale delle società ha riconosciuto come legittima la violenza dei ricchi e dei potenti con cui essi ristabilivano l’ “ordine”, ma questa stessa morale condannava come illegittima la violenza degli oppressi con cui tentavano di far valere i loro diritti. Ora può sembrare, in un primo tempo, che la nonviolenza rispolveri a suo uso e consumo questa concezione e finisca così per smobilitare gli oppressi, distogliendoli dalla lotta per la loro liberazione. Nella misura in cui si pensa che la violenza è il solo mezzo per combattere l’ingiustizia, parlare di nonviolenza sembra incitare a rinunciare alla lotta e, di conseguenza, far il gioco delle classi privilegiate. Ma il realtà il primo compito della nonviolenza è denunciare e combattere le violenze del “disordine stabilito”. La prima violenza è la violenza delle situazioni ingiuste, è precisamente la violenza dei ricchi e dei potenti grazie a cui i poveri sono mantenuti nell’oppressione. Questa violenza è la violenza madre di tutte le altre, è quella che le provoca e le spiega. E’ dunque questa la violenza che la nonviolenza deve anzitutto condannare. La nonviolenza, lungi dall’essere una smobilitazione, è al contrario un appello alla mobilitazione per combattere l’ingiustizia. In questo senso non può essere ricuperata dalle classi privilegiate.

Ma è anche vero che la nonviolenza rimette in discussione la violenza degli oppressi. Certo, non si tratta di voltare loro sdegnosamente le spalle quando, disperati, ricorrono alla violenza. L’impegno nella nonviolenza ci conduce a essere solidali con gli oppressi anche quando utilizzano la violenza. Tuttavia, questo stesso impegno ci porta a rifiutare di partecipare di persona alla violenza degli oppressi, non per frenare la loro lotta o intralciarla, ma per orientarla verso le prospettive della nonviolenza perché sono proprio queste che, in fin dei conti, offrono alla loro lotta le maggiori probabilità di riuscita. Non si tratta tanto di condannare l’azione violenta quanto di proporre e di mettere in azione una strategia dell’azione nonviolenta efficace nella situazione precisa in cui ci si trova. Gli oppressi devono liberarsi, ma devono pure liberarsi dalle loro stesse violenze, perché la storia insegna che queste sono fonti di nuove ingiustizie, di nuove alienazioni e, di conseguenza, di nuove violenze.

Domanda: Come conciliare lotta di classe e nonviolenza, se conciliabili sono? Nonviolenza e rivoluzione?

Muller: La nonviolenza riconosce non soltanto la necessità, ma la legittimità della lotta di classe. Anche qui ci sono molti equivoci e malintesi: molti pensano che la nonviolenza preconizzi forme di collaborazione di classe col pretesto che la pace sociale non è possibile che con la riconciliazione delle classi. In realtà la pace sociale non è possibile che nella giustizia. E’ disonesto parlare di lotta sociale quando soltanto pochi possono beneficiare del potere, dell’avere e del sapere, mentre gli altri sono costretti a vivere nell’impotenza, nella povertà e nell’ignoranza. Non ci può essere pace sociale senza giustizia sociale. Ora questa non è possibile che nella lotta. La storia sociale dell’ultimo secolo ci mostra chiaramente che il mondo operaio non ha acquistato nulla se non con la lotta e che le classi dei ricchi e dei potenti non abbandonano i loro privilegi volentieri.

Tuttavia è del tutto deplorevole che l’idea di lotta di classe sia stata e sia ancora associata all’idea della violenza. I sostenitori dell’ordine stabilito si sono sempre serviti di questo amalgama per screditare la lotta di classe e giustificare lo status quo, e questo sotto la copertura della morale, della filosofia e della religione. Io sono quindi convinto che la lotta delle classi sfavorite è molto più efficace quando viene condotta secondo lo spirito, i principi e i metodi della nonviolenza.

Dico lo stesso per la rivoluzione. Nella misura in cui la rivoluzione genera il terrore, si lasci il terreno della giustizia per collocarsi sul terreno della violenza e su questo terreno la rivoluzione è screditata. Se scopo della rivoluzione è “cambiare il mondo e la vita”, solo l’azione che può farci uscire dalla violenza è veramente un’azione rivoluzionaria. C’è una contraddizione fondamentale tra rivoluzione e violenza. E’ necessario che i mezzi della rivoluzione siano coerenti con i fini della rivoluzione. Ora questa ha per obiettivo una società in cui possano prevalere la libertà, l’uguaglianza e la fraternità tra tutti gli uomini, e questo scopo non può essere raggiunto che con mezzi che, per loro stessa natura, realizzano già questa società, vale a dire con mezzi nonviolenti.

notizieradicali, 23-IV-10/...

Domanda: Oggi la guerriglia insanguina le risaie del Vietnam, le capitali dell’America Latina, gli aeroporti del Medio Oriente, i quartieri irlandesi. Ha perfino avvelenato i giochi olimpici con il massacro di Monaco. E’ la guerra dei poveri, si dice, di chi tenta disperatamente, magari sbagliando, di far sentire al mondo distratto ed egoista la sua voce. Come giudica lei, questa guerriglia, questi fenomeni così sconvolgenti?

Muller: In una situazione di conflitto tipicizzata, si tratti di una rivoluzione o di guerra – ma oggi tutte le guerre non sono rivoluzionarie? – il vero clivage politico, la vera divisione non è tra i partigiani della violenza e i partigiani della nonviolenza, ma tra i partigiani dello status quo che perpetua l’ingiustizia e quelli del cambiamento che permetterebbe una maggior giustizia. Di conseguenza, la nonviolenza ci porta a essere solidali con coloro che, per esempio in America Latina si sforzano di combattere con azioni di guerriglia il regime stabilito che, con tutta evidenza, è fondato sull’ingiustizia e sull’oppressione. Ma anche lì, questa solidarietà non mette a tacere una critica fondamentale nei confronti dei mezzi utilizzati. Senza voler affatto negare che queste azioni possano avere una qualche incidenza benefica per gli oppressi,ho paura che siano soprattutto delle azioni disparate. Come si può infatti concepire, nella situazione economica e politica oggi stabilita in America Latina, che gli oppressi possano scatenare un processo di violenza capace di creare un rapporto di forze in loro favore? Da una parte la grande maggioranza dei poveri non è assolutamente pronta a impegnarsi nella vita della violenza, perché sfortunatamente – questa maggioranza è molto più vicina alla rassegnazione che alla rivolta. D’altra parte e soprattutto, i poveri non possono disporre degli strumenti di violenza che sarebbero loro necessari per affrontare i ricchi. Saul Alinsky, parlando dei Neri americani, dice molto giustamente: “E’ politicamente insensato dire che il potere è sulla canna del fucile quando sono gli avversari a possedere tutti i fucili”. E dom Helder Camara, l’arcivescovo brasiliano che ha scelto di lottare per la libertà del suo popolo con la nonviolenza, ci presenta la stessa analisi del suo paese: “Noi potremmo avere un po’ d’armi”, dice. “Ma l’avversario avrà sempre un quantitativo di armi molto superiore al nostro, e armi più potenti. E’ inutile tentare una prova di forza su questo terreno”. Mi sembra così di poter affermare come regola generale che la capacità di violenza degli oppressori sarà sempre smisuratamente più grande che la capacità di violenza degli oppressi. Quando i poveri ricorrono alla violenza, questa ha tutte le probabilità di ritorcersi contro di loro; e saranno ancora loro le vittime quando la repressione li colpirà.

Si deve pure comprendere la disperazione dei palestinesi che sono stati cacciati dalle loro terre e che sono costretti a vivere da anni nei campi di rifugiati. Il diritto legittimo degli ebrei di ritrovare una terra che sia loro non può giustificare l’espulsione dei palestinesi. Tuttavia, anche in questo caso, io penso che l’ingranaggio della violenza non offra nessuna vera soluzione nel conflitto del Medio Oriente. Quanto all’azione del commando arabo ai giochi olimpici di Monaco, penso che non abbia servito la causa dei palestinesi. Ritengo al contrario che l’abbia piuttosto screditata agli occhi dell’opinione pubblica internazionale a cui precisamente questa azione voleva appellarsi. Capisco benissimo che i palestinesi abbiano voluto approfittare del fatto che l’attenzione del mondo intero era polarizzato dai giochi olimpici per ricordare proprio al mondo che durante questo avvenimento, che si è voluto presentare come la grande festa di tutti i giovani del mondo, altri giovani erano costretti a vivere in campi profughi, senza nessuna speranza per l’avvenire. Ma sarebbe stato più efficace immaginare un’azione diretta nonviolenta: lo stesso commando palestinese avrebbe potuto fare irruzione nello stadio olimpico al momento dell’arrivo della fiamma, armato soltanto della bandiera che simbolizza la loro lotta per la libertà, e questo mentre le televisioni di tutto il mondo trasmettevano in diretta la cerimonia. Un’azione del genere avrebbe pure attirato l’attenzione sul dramma palestinese. Mentre un’azione terrorista non attira l’attenzione che sopra se stessa. Si conoscono, d’altra parte, le azioni di rappresaglia immediatamente scatenate dal governo israeliano e che hanno ancora aumentato il numero delle vittime fra il popolo palestinese. E tuttavia, questa volta, l’opinione pubblica mondiale non si è commossa di fronte a questi gesti di vendetta come aveva creduto dovere di farlo al momento del dramma di Monaco. Una volta di più è stato confermato che la violenza è l’arma dei ricchi.

notizieradicali, 26-IV-10/...

Domanda: Si dice che la nonviolenza è il ricorso alla forza dell’amore e della verità. Ma davanti a certe situazioni storiche, questa forza è sufficiente?

Muller: E’ vero che la nonviolenza si sforza di soddisfare le esigenze dell’amore e della verità, e questo anche nel campo della politica in cui disgraziatamente si ammette troppo spesso che tutto è lecito. In questo senso si è detto con ragione che Gandhi è l’anti-Machiavelli. E’ certo un errore fondamentale pretendere che la ricerca di efficacia in politica possa sottrarsi alle esigenze della morale. L’efficacia in politica non può definirsi che in rapporto all’uomo, poiché il fine della politica è di creare le migliori condizioni possibili perché l’uomo viva libero e felice in società. Di conseguenza, la morale, che fonda il rispetto di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, è il criterio fondamentale dell’efficacia in politica. Nella misura stessa in cui un’azione contravviene alle esigenze della morale, si può e si deve dire che non è efficace. Il fascismo e lo stalinismo non sono stati efficaci per costruire una società umana, precisamente perché hanno voluto sfidare le esigenze della morale. Per lo stesso motivo l’azione nonviolenta si sforza di riconciliare la morale con la politica, in altre parole, di riconciliare l’amore e la verità con la politica. Non ci può essere rivoluzione economica e politica efficace senza rivoluzione culturale, e non ci può essere vera cultura fuori dell’amore e della verità.

Ma è pur vero che sarebbe illusorio pretendere che la sola forza dell’amore e della verità sia capace di liquidare delle ingiustizie radicate nelle strutture di una società. E dispiace che certe prestazioni della nonviolenza abbiano potuto lasciar intendere una cosa simile. In un primo tempo l’azione nonviolenta esaurisce tutte le possibilità offerte dai mezzi di persuasione attraverso il dialogo e i negoziati. Si fa appello alla coscienza dell’avversario per convertirlo e alla sua ragione per convincerlo. E non si può affermare che questa maniera di procedere sia sprovvista di ogni efficacia. Ma è vero che questo si rivelerà il più delle volte inefficace. E così, quando i mezzi di persuasione si sono rivelati, per se stessi, incapaci di risolvere un conflitto, la nonviolenza non esita a ricorrere ai mezzi di pressione e anche di costrizione che obbligano l’avversario a cedere. Da quel momento l’azione nonviolenta non è più una dimostrazione di amore ma una dimostrazione bella e buona di forza che attacca la volontà dell’avversario. L’azione nonviolenta deve permettere agli oppressi di acquistare il potere di cui hanno bisogno per combattere il potere degli oppressori, in modo tale che gli oppressi possano far riconoscere i loro diritti e assumere essi stessi la guida del proprio destino. Non diciamo dunque che la forza della nonviolenza è la forza dell’amore e della verità, ma che è una forza compatibile con l’amore e la verità.

Domanda: Quali sono i mezzi e le tecniche più efficaci e comprovate di lotta nonviolenta? Vuole darcene un accenno?

Muller: Il principio essenziale della strategia dell’azione nonviolenta è il principio di non cooperazione e di non collaborazione. Di fronte all’ingiustizia, infatti, la nostra più grande tentazione non è la violenza. In realtà, esitiamo molto prima di ricorrere alla violenza. La violenza ci fa paura e nella maggioranza dei casi noi non siamo violenti che “per procura”, vale a dire esaltando la violenza degli altri, dei vietnamiti per esempio. La nostra più grande tentazione, dicevo, non è resistere con la violenza, è di non resistere del tutto, vale a dire di accettare passivamente l’ingiustizia e di diventarne complici cooperando, collaborando con essa. Ciò che fa la forza delle ingiustizie in una società è che esse possono beneficiare della cooperazione volontaria o rassegnata della maggioranza dei membri di questa società. La strategia dell’azione nonviolenta punta a spezzare questa collaborazione organizzando azioni collettive di non cooperazione capaci di inaridire ed esaurire le fonti di potere dell’avversario. L’analisi fatta da Gandhi in India è stata questa: se poche migliaia di inglesi tengono sotto il loro dominio molti milioni di indiani, non possono farlo che grazie alla collaborazione di questi ultimi. Ed ha organizzato azioni collettive di non cooperazione che hanno messo la potenza britannica nell’impossibilità di mantenere l’India sotto il suo dominio.

La prima esigenza della non cooperazione è di denunciare l’ingiustizia con azioni di protesta, allo scopo di fare appello all’opinione pubblica in modo che questa sia informata e possa mobilitarsi. Numerose forme di manifestazioni sono possibili: riunioni, sfilate, marce, sit-in, occupazioni pacifiche di locali, scioperi della fame, ecc. Ma già queste manifestazioni possono degenerare in violenza se non si sta attenti. Anzitutto può diventare violenta la parola che ha per scopo di spiegare la manifestazione agli spettatori: gli slogans, i cartelli, le bandierine e i disegni possono contenere insulti che esprimono la collera, il risentimento e anche l’odio dei manifestanti. Questa violenza della parola non è trascurabile. In realtà crea già, di per se stessa, l’atmosfera del conflitto. E quindi, invece di convincere l’opinione pubblica, rischia molto più spesso di indisporla: per questo è un errore strategico. La recettività dell’opinione pubblica è molto maggiore di fronte a una parola pacificata e serena che a una parola carica di livore.

Esiste un altro rischio di violenza nello scontro tra manifestanti e polizia. Anche in questo caso la violenza finisce per screditare la manifestazione. Ci sono metodi precisi che permettono di conservare alla manifestazione un carattere nonviolento anche di fronte alle provocazioni poliziesche. I Neri di Martin Luther King hanno dovuto spesso affrontare queste provocazioni e hanno saputo tuttavia rimanere nonviolenti. Ma nella maggior parte dei casi, queste azioni di protesta non saranno sufficienti a far avanzare la causa. Bisognerà ricorrere ad azioni dirette di pressione e di costrizione. Lo sciopero è precisamente un’azione nonviolenta: la cessazione del lavoro in una fabbrica o in un settore professionale è infatti un’azione di non cooperazione. Certo, gli scioperi sono spesso stati marcati da violenze, ma ci inganneremmo se pensassimo di dover attribuire l’efficacia dello sciopero a queste violenze: quasi sempre anzi la violenza ne diminuisce l’efficacia.  

notizieradicali, 27-IV-10/...

Domanda: Che impatto ha la sua fede cristiana nella scelta della nonviolenza? E come giudica l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’azione nonviolenta oggi?

Muller: Non c’è dubbio che la mia fede cristiana ha avuto un ruolo molto importante nel mio cammino verso la nonviolenza. Man mano che prendevo coscienza di ciò che era veramente la violenza, avevo l’impressione sempre più chiara che non era conciliabile con il Vangelo. Certo, non ero molto incoraggiato in questa convinzione dalla dottrina ufficiale della chiesa (o più esattamente dalla dottrina della Chiesa ufficiale). Questa dottrina infatti riposa sul principio della violenza legittima (si preferisce generalmente chiamarla col nome di “legittima difesa”, ma tale principio giustifica in realtà la violenza perché è pacifico che è necessario e legittimo difendersi contro l’ingiusta aggressione). D’altronde, se guardiamo la storia dei cristiani ci accorgiamo che questa è pure la storia delle loro guerre che sono sempre state dichiarate giuste quando non potevano essere dichiarate sante. Tuttavia non ho rinunciato alle mie convinzioni. Al contrario mi sono sforzato di approfondirle e di esplicitarle: è questo che mi ha condotto a scrivere il mio primo libro “L’Evangile de la nonviolence”.

Penso che il cristianesimo sia innanzi tutto una Buona Novella che libera l’uomo dalla fatalità che sembra incombere sull’esistenza e sulla storia, e che ci libera in modo del tutto particolare dalla fatalità della violenza. Se la violenza è una fatalità, allora né l’esistenza dell’uomo né la storia dell’uomo né la storia dell’umanità hanno più senso: siamo irrimediabilmente prigionieri di un destino assurdo. Ora il cristianesimo è precisamente l’affermazione che la speranza è possibile. Roger Garaudy ha potuto scrivere: “Tutte le saggezze fino a quel momento, meditavano sul destino, sulla necessità confusa col destino. Gesù ha mostrato la loro follia. Lui, il contrario del destino. Lui, la libertà, la creazione, la vita. Lui che ha defatalizzato la storia”. Il significato della Risurrezione è che la storia sacra deve essere e può essere ormai una storia nonviolenta. Il dinamismo del Vangelo è dunque un dinamismo della Speranza che non può essere capito né vissuto che nel dinamismo della nonviolenza. Mi sembra importante parlare di dinamismo e non presentare la nonviolenza come una legge a cui bisogna sottomettersi. Troppo spesso il cristianesimo è stato interpretato nel quadro stretto di un legalitalismo e di un giuridismo che ci facevano dimenticare che il Vangelo è l’annuncio di una liberazione.

Intendo pure il dinamismo del Vangelo come il dinamismo dell’amore noi sappiamo che questo dinamismo deve condurre fino all’amore del nemico. Dirò che la nonviolenza è precisamente l’amore del nemico in atto. Preciso bene: “in atto”, e non “in intenzione”. E’ deplorevole che  il cristianesimo sia diventato una morale e che la morale cristiana sia diventata una morale dell’intenzione. Diventava in tal modo legittimo uccidere il proprio nemico, purché lo si uccidesse senza odio. L’esigenza cristiana era dunque che, all’occorrenza, lo si uccidesse con amore e, disgraziatamente, non sto facendo qui nessuna caricatura. Ora tutte le parole e tutta la vita di Cristo ci insegnano che l’amore è precisamente incompatibile con la violenza: si pensi alle beatitudini, si pensi alla scena in cui Gesù perdona la donna adultera e condanna lo spirito di vendetta e di violenza dei farisei, si pensi a Gesù che chiede a Pietro di rimettere la spada nel fodero, si pensi infine alla testimonianza suprema di nonviolenza data da Gesù in tutto il corso della sua passione. Non ci può essere altra teologia che una teologia della nonviolenza.

Quando al Cristo che caccia i mercanti dal tempio, noi lo rivendichiamo come il tipo stesso dell’azione nonviolenta diretta. Certo, egli ha esercitato una certa costrizione sui buoi e sulle pecore che sono frustrate, costrizione che ricade sui mercanti che devono seguire le loro bestie. Ma si può ragionevolmente partire dal fatto che Gesù abbia frustrato buoi e pecore per concludere che egli ha così giustificato la violenza? Nel Vangelo, la frusta non è uno strumento di violenza che al momento della flagellazione.

Mi sembra pertanto chiaro che il Vangelo ci conduca a optare fondamentalmente per la nonviolenza. E questa opzione concerne pure la vita politica. Il Regno di Dio non è il Regno delle anime, il Regno degli uomini. Oggi la Chiesa comincia a riscoprire la nonviolenza. Dico riscoprire perché nei primi secoli i cristiani hanno capito e vissuto il Vangelo nel senso della nonviolenza. Tutta l’epoca dei martiri è esattamente un’epopea nonviolenta. In seguito i cristiani si sono sempre più compromessi con la violenza dell’Impero e non soltanto la Chiesa si è sottomessa allo Stato, ma la Chiesa stessa è diventata uno Stato con la sua polizia, i suoi tribunali, le sue prigioni, i suoi eserciti.

Oggi fortunatamente assistiamo a un ritorno alle fonti del Vangelo. A varie riprese Paolo VI ha affermato chiaramente che il cristianesimo ci impegna sulla via della nonviolenza. Citiamo soltanto un passo del suo discorso, tenuto a Kampala, durante il suo viaggio in Africa: “Oggi purtroppo…ridiventa malauguratamente corrente la funesta parola di guerra come provenisse da ineluttabile necessità. La Chiesa, precisamente per il suo carattere stesso, per il suo principio evangelico di nonviolenza, non può far suo questo linguaggio disumano…La violenza non deve più costituire la regola per risolvere le contestazioni umane, ma la ragione e l’amore”.

Anche l’ultimo sinodo chiede con molta chiarezza che siano trovati altri mezzi, diversi dalla guerra, per risolvere i conflitti umani, e che sia privilegiata l’azione nonviolenta. Ma bisogna riconoscere che la nonviolenza è ancora troppo misconosciuta da troppi cristiani e anche da molti vescovi e che l’alleanza della Chiesa con l’esercito è ancora tenace. Si deve compiere una grande lavoro di informazione e di educazione perché la Chiesa si impegni risolutamente nella via della nonviolenza e possa così ridiventare un segno di speranza per tutti gli uomini.

notizieradicali, 28-IV-10