Europa federata, vv.aa. (1/3)

Europa federata

di Autori vari
Nota di Gu. Ve.

“…In ottobre vorremmo fare una prima grande manifestazione pubblica. Te la sentiresti di parlare all’Eliseo? Sarebbe magnifico. Il tuo nome attirerebbe un buscherio di gente e saresti l’uomo più adatto per impostare bene i problemi per tutta la nostra futura compagnia…”. Così il 6 settembre 1947 Ernesto Rossi scriveva a Gaetano Salvemini, invitandolo a parlare “sull’unificazione federale dell’Europa, tema sul quale hai già scritto tante volte anche in America”.
Il progetto va avanti. Il 24 settembre Rossi comunica a Salvemini che Luigi Einaudi ha accettato, con altri, di intervenire alla manifestazione per la Federazione Europea. “Il programma”, scrive Rossi, “sarebbe: presentazione di Ferruccio Parri, poi parleresti tu impostando il problema storicamente e politicamente; poi parlerebbe Calamandrei sull’ordinamento giuridico della Federazione;poi Einaudi sui problemi economici; poi Silone sugli scambi culturali e sulla difesa dei valori spirituali della nostra civiltà nella Federazione. Data: nella seconda quindicina di ottobre”. “Va bene per la cicalata sulla Federazione Europea”, risponde Salvemini.

Il convegno poi seguì un ordine diverso; ma gli oratori annunciati si presentarono tutti all’appello. I testi delle loro relazioni furono poi raccolti in volume: “L’Italia federata”, pubblicato dalle Edizioni di Comunità. Testi di grande valore, non solo storico, e che qui, a puntate, riproponiamo_ sono di difficile e costoso reperimento, essendo disponibili solo nel circuito delle librerie antiquarie. Sono testi importanti e letture preziose anche per l’oggi; e si leggano, per esempio, le pagine che Ignazio Silone dedica al pacifismo; o l’intervento di Salvemini: le pagine che dedica al modello statunitense, svizzero, a Carlo Cattaneo. Il vero federalismo, altro che le scempiaggini della Lega Nord.

 

Introduzione di Ernesto Rossi

Non era stata fatta quasi nessuna reclame. Nessun appello attraverso gli organi dei partiti. Soltanto l’annuncio, il giorno prima, su qualche giornale amico. Eppure domenica scorsa il teatro Eliseo di Roma era straordinariamente affollato in ogni ordine di posti. Un pubblico intelligente, comprensivo – composto di uomini politici, uomini di cultura, professionisti, impiegati, e molti, molti giovani dei diversi partiti e senza partito – per più di due ore ha seguito con grande attenzione, sottolineando col riso o con l’applauso anche le più sfumate allusioni, i discorsi dei cinque oratori che, da diversi angoli visuali, hanno illuminato lo stesso argomento: “La unità europea e la pace nel mondo”. Gli oratori erano: Ferruccio Parri, Piero Calamandrei, Ignazio Silone, Luigi Einaudi e Gaetano Salvemini: cinque “chierici” che, nonostante tutte le prove del fortunoso ventennio passato, non hanno tradito.
Un liberale che, a viso aperto, aveva difeso la monarchia, il più grande teorico ed il più strenuo difensore delle tesi liberiste in Italia – Luigi Einaudi, vice presidente del Consiglio e ministro del bilancio – si trovava sulla stessa tribuna dalla quale parlavano quattro oratori che un anno prima gli erano stati decisi avversari nella campagna per la repubblica, ancora oppositori al governo, del quale egli faceva parte, e due – Salvemini e Silone -. Vecchi socialisti, anche se considerati “eretici” dalla chiesa marxista. Questi uomini che, venendo da esperienze culturali e di vita molto diverse, ave vano più volte manifestate idee diverse, e spesso opposte, sull’ordinamento costituzionale dello Stato, sulla funzione politica delle varie classi sociali, sulle riforme da apportare alla struttura economica del paese, sulla maggior parte, forse, dei problemi di politica interna, traevano, da un obbiettivo e approfondito esame della situazione internazionale, la medesima conclusione: impossibile restaurare la pace, il benessere, la libertà sul nostro continente, impossibile ormai salvare la nostra civiltà se non si arriva agli Stati Uniti d’Europa. La connessione logica tra le argomentazioni dei cinque oratori, la concordanza fra le tesi sostenute nei loro discorsi, era tale che a leggerli ora riuniti in questo volumetto sembrano cinque capitoli scritti da un medesimo autore.
Il significato di questa constatazione è stato ben messo in rilievo nelle parole con le quali “L’Italia socialista” ha intitolato il resoconto della manifestazione: “La linea di divisione tra forze progressive e reazionarie passa oggi fra federalismo e nazionalismo”.
Le ragioni della politica internazionale, infatti, dominano oggi le ragioni della politica interna. Con grande rumore di colpi, con gran luccichio di corazze di latta, sul palcoscenico si battono gli eroici paladini contro i ferocissimi saraceni; ma i burattinai che tirano le fila stanno nella Casa Bianca, nel Cremlino, a Downing Street, e il nostro lavoro, il nostro pane, la nostra libertà, purtroppo, oggi dipendono da loro, più che da noi.

E che varrebbe rimettere ordine nella nostra casa sconvolta, che varrebbe ricostruire quello che la bufera ha distrutto, che varrebbe lottare contro i privilegi per rendere accessibili i valori della nostra civiltà alle masse oggi abbrutite dalla miseria, se la nostra stessa generazione dovesse assistere alla terza furibonda cavalcata dei quattro cavalieri dell’Apocalisse sulle ultime macerie della nostra civiltà in Europa?
Il problema della organizzazione internazionale della pace è oggi il problema centrale, il problema la cui soluzione condiziona le soluzioni di tutti gli altri problemi, anche di politica interna.

Domenica scorsa, per la prima voltga dopo la guerra, si è vista a Roma tanta gente riunita in una manifestazione politica che non era stata organizzata dai partiti.
Gli è che molti sono ormai stanchi delle diatribe fra i dirigenti dei partiti, sono delusi per l’evidente contrasto fra le affermazioni idealistiche dei programmi e le meschine ambizioni ed i loschi interessi nella pratica di ogni giorno; non sanno più che pesci pigliare, in conseguenza delle abilissime manovre dei “tattici”, maestri del doppio gioco, sempre pronti a mercanteggiare ed a trovare un compromesso anche su questioni di principio sulle quali fino all’ultimo momento hanno fatto le più decise affermazioni di assoluta intransigenza; demagoghi disposti a promettere la luna nel pozzo pur di acquistare popolarità ed a sostenere a tutti i costi l’interesse sezionale della propria clientela, presentandolo come interesse generale, anche quando con questo interesse è nel più evidente contrasto; venditori di fumo che sembra non possano più vivere fuori del bluff.
Quando si leggono certi giornali, quando si ascoltano i discorsi di certi cosiddetti uomini politici, sembra quasi sentire ripetere la sconclusionata storiella che ci raccontavano da bambini:

“Seduta su un sassino di legno, una giovane vecchia, al lume di un lumicino spento, con un coltellino senza manico e privo di lama, sbucciava un pivellino…”.
Non è da meravigliarsi se tanti, anche fra i migliori, anche fra coloro che hanno combattuto con maggiore coraggio per la libertà contro i fascisti e i nazisti, sono oggi disorientati e si traggono in disparte perché non sanno più cosa fare.
Gran parte del pubblico riunito domenica scorsa all’Eliseo era formato proprio di questi scontenti, di questi disorientati, che vorrebbero essere aiutati a trovare la strada per muoversi verso una società veramente più umana e che su questa strada sperano di ritrovarsi con gli altri uomini che la pensano come loro – uomini che essi sanno essere molti, forse la grande maggioranza di coloro che sono fuori del chiuso dei partiti politici ma che, da soli, non riescirebbero a rintracciate.
Queste persone sono contente di essere andate domenica all’Eliseo, e certamente molte di loro si ritroveranno a lavorare nel Movimento Federalista Europeo, assieme agli uomini che, nonostante tutto, ancora tengono duro, lottando con costanza e con fede, in difesa dello stesso ideale di civiltà, all’interno dei diversi partiti.

Roma 28 ottobre 1947

(1. segue)
Presentazionedi Ferruccio Parri

Voi non vi attendete certo che io spenda parole per presentarvi gli oratori di oggi. La loro opera, anzi il coraggio morale e l’altezza della loro opera, li raccomandano e – direi – li impongono alla vostra attenzione.
Vi è tuttavia un saluto, un primo saluto, che a nome vostro devo rivolgere a Gaetano Salvemini, carissimo a noi anziani, che riconosciamo tutti nella formazione morale del nostro spirito la sua vigorosa impronta, indelebile impronta, poiché avanti tutto egli ci è stato maestro di probità intellettuale; maestro ed esempio di indomita energia morale, sia carissimo a voi, più giovani, che non l’avete conosciuto. Riaverlo qui, tra noi, oggi dopo così lungo distacco e tanta bufera è un sogno, quasi incredibile, Ed è per me un premio, un’intima ragione di orgoglio, il privilegio di esser io a rendergli l’abbraccio affettuoso e riconoscente di tutti voi.
La manifestazione di oggi non vuole essere occasione di occasionali orazioni, genericamente esortatrici e propiziatorie. Un intendimento serio, concreto vi ha presieduto e percò un filo logico lega le esposizioni che vi saranno fatte degli aspetti fondamentali della costruzione di una solidarietà europea, anche se ciascuna di esse vi è fatta a titolo personale e rispecchia le vedute che ciascuno degli oratori vi propone come tema di riflessione e di discussione.
Piero Calamandrei vi dirà quali sono le caratteristiche giuridiche che distinguono le costituzioni federali dalle altre forme di organizzazione internazionale, Ignazio Silone vi parlerà sul tema sociale, dando la sua interpretazione della funzione storica delle classi operaie di fronte alla costruzione dell’unità europea. Luigi Einaudi – che vogliamo calorosamente ringraziare per l’alto significato che, in momenti governativi così procellosi, la sua stessa presenza qui riveste – indicherà le ragioni, anzi le necessità, che spingono le nostre economie nazionali a dimensioni europee. Gaetano Salvemini darà l’impostazione politica al problema dell’unificazione europea precisandone i termini essenziali.
Non parlerà il “regista” al quale si deve l’impostazione originale di questa manifestazione. Egli è tra i pionieri della nostra idea, e vi dà la forza e l’ardore di un apostolo, ed io vi chiedo anche per Ernesto Rossi la lode meritata del vostro applauso, che lo tragga dalla penombra della sua modestia.
Particolare è l’interesse e l’importanza di questa riunione perché essa segna il deciso, volontario proposito di superare nettamente la fase predicatoria, di trasportare queste questioni nel segno delle cose concrete, di stabilire le basi, sia pur provvisoria, di discussioni e delle elaborazioni ulteriori, punto di partenza per definire quelle soluzioni capaci d’imporsi per la loro ponderatezza, necessità ed attuabilità all’opinione pubblica ed ai governanti.
In quest’ordine di idee siamo tutti, credo, a cominciare dai dirigenti della Sezione romana del Movimento Federalista Europeo, benemeriti organizzatori di questa riunione. Ed è proprio questo spirito e proposito di concretezza che consente anche a me di rivolgere uno stringente appello a quanti condividono la nostra ansia e credono nell’azione, di unire le forze, di raccogliersi nelle file di questo Movimento: che è movimento, non accademia declamatoria; movimento d’idee, non strumento di gloriole personali. Se non fossimo sicuri del contrario né io, né molti di voi sicuramente vi staremmo.
Nessuno degli oratori, io credo, illustrerà le difficoltà straordinarie della unificazione europea. Non è loro compito. Lasciate dire a me che nessuno di noi se le dissimula. Non si tratta di federare il Texas e New York. Troppi secoli di ossificazione storica, di glorie e di muffe, di ira e di gelosia gravano sulle nazioni che compongono questa nostra gloriosa e stracciona famiglia europea. E qual cimitero alle nostre spalle di errori e di delusioni, di generose iniziative regolarmente silurate con tutti gli onori dalla miopia nazionalistica dei nostri governi! L’ultima e ben dimostrativa esperienza l’abbiamo avuta recentemente a Parigi, quando 16 nazioni invitate ad elaborare un piano di ricostruzione europea non seppero uscire dal “particolare” – di guicciardiniana memoria e monito – dei propri guai ed interessi. Ci volle un brusco richiamo americano per indurle ad alcune pie affermazioni di principio. Nessuna delegazione – nemmeno, direi, quella italiana – era sul piano dell’affare comune che richiede per il vantaggio comune il coraggio di concessioni reciproche. Perdurando questo indirizzo, le trattative di unione doganale, come quelle italo-francesi, si risolveranno in prese in giro.
Ben delusiva esperienza quando l’orizzonte sembra ogni giorno più chiudersi e le nubi sembran promettere ormai il loro diluvio universale.
La crisi economica squassa le nazioni, le fratture interne si approfondiscono minacciose, franano le posizioni di salvaguardia, cresce la confusione delle lingue e l’ansia di ognuno. Pende sul mondo in questo crepuscolo la gran paura dell’anno 1000.

 

Oltre la nube, oltre la paura, questo squarcio d’azzurro, questa lama di luce, quasi irreale, dell’Europa unita per la salvezza dell’Europa. Irreale? Irreale come l’unità d’Italia nei tempi più bui della reazione, come l’unità d’Italia un secolo addietro, nel 1847, quando l’Italia era una espressione geografica o letteraria, come è ancora l’Europa.
Vi è chi crede alla logica della storia, o – se voi volete – ai disegni della Divina Provvidenza. Una logica che procedendo per successivi superamenti o per gradini o passi di vite, per tappe progressive dunque di civiltà liberatrici e di unificazioni crescenti, dovrà senza fallo verificare anche questa tappa delle unità continentali. Noi crediamo piuttosto che le idee giuste risvegliano e polarizzano quando si facciano ideale le energie capaci di realizzarle.
Questa era la fede di Agostino Trabalza, al cui nome è dedicata la sezione federalista romana, figlio del popolo e delle sue opere, idealista e non utopista, entusiasta e concreto; egli è morto alcuni mesi or sono, giovane ancora, con questa fede e questa speranza.
Le pagine piene di senno e senso profetico che egli dedicò alcuni anni addietro a “Gli Stati Uniti d’Europa” vibrano già di quest’ansia. Ansia di disavvelenare questa parte del mondo, di costruire un’organica struttura di solidarietà per ciascuno quella indipendenza dai potenti della terra alla mercè dei quali siamo e rimarremo se isolati. Che faccia dell’Europa una zona di pace, e cin ciò il cuscinetto della pace del mondo. Se una solidarietà di destino stringe i paesi d’Europa, li stringa una solidarietà di opere di difesa.
Ansia dunque di diffondere intorno a queste idee quell’atmosfera di convinzione pubblica che permetta di renderle operanti. Che scuota e muova l’uomo della strada, i parlamenti ed i governi.
Ansia, amici, di procedere più veloci che le ragioni della guerra, di precedere la perdizione. Perché infine è la nostra libertà che vogliamo salvare, è il nostro credo in una civiltà che fondi la liberazione e l’ascensione del popolo sullo sviluppo ed arricchimento della personalità umana che vogliamo trasportare sul piano più alto, sul quale solo potrà realizzarsi.
Io ho sconfinato dalla semplice parte di “buttafuori” che mi era assegnata. Scusatemi. Mi era difficile non dirvi come la sicurezza ragionata della nostra fede renda invincibile la nostra speranza e debba rendere fermo il nostro proposito di opere virili.


(2. segue)

Stato federale e confederazione di stati
di Piero Calamandrei

Ho l’onore di parlarvi per primo, per conformarmi al detto evangelico che gli ultimi saranno i primi; non solo infatti, senza possibilità di dubbio, io vengo per autorità buon ultimo tra gli oratori che qui stanno per parlarvi, ma anche l’argomento su cui brevemente vi intratterrò, che è quello degli aspetti giuridici del federalismo, dovrebbe logicamente esser trattato per ultimo, perché le forme giuridiche sono sempre la conseguenza e non le premesse della realtà politica che le precede. Tuttavia, poiché il discutere in precedenza le formule giuridiche, attraverso le quali un certo movimento politico potrà domani tradursi in realtà, significa considerare il problema sul terreno dell’attuazione pratica e, con questo, uscire dal vago per conquistare qualche idea chiara e precisa, può essere utile, prima di ascoltare chi ci parlerà della sostanza economica e sociale del federalismo, fissare qualche concetto elementare e indispensabile sugli aspetti formali dell’argomento: una specie di piccolo dizionario introduttivo, quasi un vademecum giuridico, si potrebbe dire, dell’allievo federalista.

Quando si parla degli Stati Uniti d’Europa, nel senso in cui l’intendiamo noi federalisti, bisogna riferirsi a quel tipo di ordinamento costituzionale che i giuristi, nei loro manuali, chiamano Stato federale, tipo ben distinto, nonostante il suono molto simile delle parole, da quell’altro ordinamento che gli stessi giuristi chiamano Confederazione di Stati (ma che poi nella storia si può ugualmente chiamare in tanti altri modi: Unione, Lega, Società di Stati, Società delle Nazioni, Organizzazione delle Nazioni Unite, e così via).
Non si tratta di distinzioni meramente scolastiche e terminologiche. La differenza essenziale che passa tra queste due figure di ordinamenti è nel diverso grado di coesione e di fusione tra gli Stati componenti. Nella Confederazione, o Lega, o Società di Stati, la coesione è molto minore, tanto da lasciar sussistere ancora una pluralità di Stati, tutti indipendenti e sovrani, associati come liberi contraenti per un fine comune; invece nello Stato federale la fusione è giunta ad uno stadio molto più avanzato, sicchè gli Stati componenti hanno perduto ognuno una parte della loro sovranità per cederla a uno Stato centrale sopraordinato, che si è creato al di sopra di loro: non sono ancora scomparsi in esso, come nello Stato unitario, gli Stati componenti, ma già vi si trovano inseriti in una solida unità, come le pietruzze multicolori di un mosaico, tenute ormai insieme da uno stabile cemento. Storicamente si può dire che le Confederazioni o unioni di Stati sovrani precedono lo Stato federale di cui sono spesso il primo passo: la Confederazione e perpetua unione, che nel 1776 federo tra loro le tredici colonie inglesi dell’America del Nord dopo la liberazione, diventò dopo dieci anni, con la costituzione del 1767, quello Stato federale che sono ancor oggi gli Stati Uniti d’America; la Svizzera, che per il patto federale del 1815 era tornata ad essere, dopo il periodo napoleonico, una Federazione di Stati sovrani, diventò, con la costituzione del 1848 (nonostante che conservi tradizionalmente il nome di Confederazione) un vero e proprio Stato federale, quale è oggi.

Un giurista tedesco, Jellineck, definì la Confederazione come una “stabile unione di stati indipendenti, basata su un accordo, allo scopo principale di proteggere il territorio confederato verso l’estero e di conservare la pace interna fra gli Stati collegati”: in questa definizione l’accento va messo sulla parola indipendenti (“stabile unione di stati indipendenti). Carattere essenziale della Confederazione è infatti quello di rispettare in maniera assoluta la sovranità e la indipendenza degli Stati confederati. C’è un accordo fra uguali; non, al di sopra di loro, un soggetto a cui essi siano sottoposti.

Orbene, il carattere tipico per il quale lo Stato federale si distingue dalla Confederazione di Stati è proprio questo: che nello Stato federale gli Stati componenti e federati non sono più del tutto indipendenti, non sono più del tutto sovrani. Questa è un’idea che ogni federalista deve aver molto netta, per assumerne ponderatamente la responsabilità, perché può parere in conflitto con profondi e rispettabili e cari sentimenti: chi è favorevole al federalismo deve per forza rinunziare alla piena indipendenza e alla piena sovranità della sua Patria. Non si può essere insieme nazionalisti e federalisti: il federalista ama la sua piccola patria, come l’amava Giuseppe Mazzini, in quanto componente di una patria più grande, che domani potrebbe essere l’Europa; che dopodomani potrebbe essere il Mondo.

Ma allora, dirà qualcuno, il federalismo è larvatamente o dichiaratamente, umiliazione e asservimento della patria: di questa mia piccola patria alla quale dopo tanti lutti mi sento profondamente attaccato, più di sempre; se questa deve cessare di essere indipendente e sovrana, cioè unica fonte di autorità originaria dentro i propri confini, vuol dire che il federalismo è dottrina che vuole risospingere i popoli verso la dominazione straniera; e per l’Italia è rinnegamento del principio di nazionalità e di quelle guerre d’indipendenza cominciate proprio in quel 1848 di cui si sta per celebrare il centenario.

Ora è proprio qui che bisogna avere le idee chiare. Le limitazioni di sovranità e di indipendenza sono umilianti e avvilenti e fatte in pura perduita quando sono unilaterali, cioè imposte da una potenza dominante che limita e subordina senza reciprocità uno stato vassallo. Di queste limitazioni imposte e unilaterali l’Italia sente oggi l’offesa: nel trattato di pace ve n’è più d’una, e forse qualcuna è nascosta anche in qualche articolo della Costituzione.

Ma c’è invece una limitazione di sovranità e di indipendenza che non è umiliante perché è reciproca; che non è fatta in perdita perché quella porzione di sovranità che si perde sul piano nazionale ha come compenso e corrispettivo la partecipazione ad una sovranità più vasta e più alta, cioè a quella sovranità che si esercita su un piano supernazionale. Questo è appunto il tipico premio che lo Stato federale dà agli Stati componenti: ciascun Stato componente rinuncia a una parte della sua sovranità (per es., a quella che riguarda l’esercito, la moneta, le dogane, certa parte della legislazione generale, e così via) per trasferirla allo Stato federale, alla cui amministrazione partecipano, in condizioni di uguaglianza, i cittadini di tutti gli Stati componenti.

Questo è il punto in cui meglio si vede la profonda differenza che passa tra il vero Stato federale e quelle Confederazioni o Unioni o Leghe di Stati sovrani, quale era in sostanza la Società delle Nazioni di infelice memoria od anche, all’incirca, la attuale Organizzazione delle Nazioni Unite. Queste sono sì, unioni di Stati costituite per il raggiungimento di scopi comuni, dotate di organi comuni e fondate sulla volontà di cooperazione degli Stati componenti: ma in esse ogni Stato conserva gelosamente la sua indipendenza e la sua sovranità ed ha sospetto di ogni iniziativa altrui che miri a limitargliela; in esse ogni Stato, dal più minuscolo al più grande, dalla Repubblica di San Marino alla Confederazione delle Repubbliche Russe, può contare per uno, come nel protocollo diplomatico conta per uno l’Ambasciatore di qualsiasi paese; e le deliberazioni, per aver valore, devono essere prese all’unanimità, in modo che basta il dissenso o il veto di un solo associato (o magari di alcuni di essi, a cui il privilegio sia riservato) per impedire qualsiasi decisione basata sul consenso di tutti gli altri. Questa è l’assurda, ma necessaria, conseguenza del principio di assoluto rispetto alla sovranità e all’indipendenza degli Stati, che porta logicamente a escludere che la volontà di uno di essi, fosse anche il più piccolo, possa essere costretta o limitata da forze esterne.

Anche per le Nazioni Unite si ripete la formula malaugurata che portò al fallimento della Società delle Nazioni, la formula uguaglianza e unanimità. Ma questo è essenzialmente negazione della democrazia: nella quale, al posto della uguaglianza degli Stati che sono una creazione astratta, è più logico mettere la uguaglianza degli uomini, che sono creature concrete fatte di carne e d’anima; e al posto della unanimità si deve mettere il principio essenzialmente democratico della maggioranza.

In realtà, in queste leghe di Stati sovrani, ai cittadini dei diversi Stati si viene a dare in maniera assurda un valore differente, perché, se nella votazione si fa contare per uno lo Stato che ha 100 milioni di abitanti, e ugualmente per uno lo Stato che ne ha 100mila, evidentemente si dà a ciascun cittadino di questo secondo Stato un peso internazionale mille volte superiore a quello che si dà a ciascun cittadino del primo. Questo può avvenire perché a cosiffatte leghe di Stati sovrani non partecipano direttamente i popoli, ma solo i governi: in queste leghe ogni Stato è una specie di prigione senza finestre, dentro la quale i popoli si trovano incatenati dalle sbarre della sovranità nazionale e non possono uscir fuori a tender la mano agli altri popoli, creature umane verso creature umane.

Viceversa nello Stato federale, quale noi lo vagheggiamo, la sovranità supernazionale penetra dentro i confini di ogni Stato componente e vi può imporre i suoi comandi ai singoli cittadini; ma i singoli cittadini di ogni Stato componente possono uscir fuori dal chiuso della loro patria nazionale e ritrovarsi concittadini anche del superstato. Cittadino italiano dentro i confini, ma fuori dei confini cittadino europeo; questa può apparire oggi una frase puramente sentimentale, ma potrà domani diventare una realtà giuridica: un cittadino che ha diritti e doveri nelle leggi dello Stato europeo, e che nella organizzazione politica di questo Stato conta per uno, e dà il suo voto e concorre a formare quella maggioranza democratica che dovrà governare gli Stati Uniti d’Europa, per attuare i quali occorrerà che ogni Stato componente abbia nel suo ordinamento interno un regime democratico che permetta a tutti i cittadini di contare per uno nella loro patria nazionale per poter poi contare per uno nella più grande patria supernazionale.

 Voi comprenderete allora come questa limitazione di sovranità si risolva in realtà per i cittadini in un arricchimento e in un accrescimento di diritti. Lo stato nazionale rinuncia a tenere in piedi un esercito per far guerra ai suoi vicini; ma i suoi cittadini sono militari dell’esercito federale che ha il compito non di assassinarci tra europei ma di difender l’Europa. La partecipazione alla sovranità dello Stato supernazionale si traduce in nuovi diritti individuali dei cittadini di tutti gli Stati componenti: tutti parteciperanno ai vantaggi, alle compensazioni, agli scambi di questa comunità più vasta.

Questa ascensione di diritti individuali dal ristretto ambito nazionale alla più vasta sfera supernazionale, queste apparenti limitazioni della libertà individuale, miranti ad aumentare su un piano collettivo la ricchezza comune, è in fondo la storia della civiltà umana: così dall’individuo isolato, Homo homini lupus, è nata la prima consociazione umana, il primo germe dello Stato, fondato sui primi sacrifizi imposti alla ferocia individuale. Questo è il processo che dal Comune ha portato alle più vaste signorie, che dagli Stati italiani ha portato all’Italia unita.

Si tratta di unificare l’Europa: rinunciare a una parte della nostra indipendenza di popolo sovrano, che spezzo più che fierezza è albagìa, per trasferirla all’Europa e contribuire così a quella grande ricchezza comune che sarà la pacificazione dell’Europa e del mondo. Il premio sarà certo superiore al sacrificio.

Vedete quello che è accaduto da millenni nel campo individuale, dove è reato farsi giustizia da sé, dove è vietato al creditore di adoperare il bastone per costringere il suo debitore a pagarlo. Ma questo non è un impoverimento della libertà del singolo, è piuttosto un arricchimento non solo di giustizia, ma anche di forza, perché io, individualmente disarmato, ho a mia disposizione, a difesa del mio diritto, i tribunali e la forza pubblica dello Stato. Se io in piazza di Montecitorio sento all’improvviso cantare degli inni fascisti non ho bisogno di ricorrere alla ginnastica delle mie braccia (come è capitato al nostro amico La Malfa) per sbarazzarmi dei disturbatori: perché subito interviene a disperderli, come tutti sanno, la forza pubblica predisposta dal Ministro dell’Interno. E questo è per me un arricchimento, non un impoverimento!

Concludendo: due idee fondamentali: federalismo vuol dire limitazione di sovranità e di indipendenza dello Stato nazionale a favore del superstato federale; federalismo vuol dire aumento di diritti individuali dei cittadini, i quali, godendo di una doppia cittadinanza, parteciperanno in regime democratico, non solo alla vita politica dello Stato componente, ma altresì alla formazione della maggioranza che dirigerà il superstato federale.

 Ma qui sento qualcuno che mi domanda: potresti tu, giurista, dirci come si potrà fare a tradurre in pratica questo ideale, con quali procedure si potrà, ordinatamente e senza scosse, arrivare a questa mèta? Ma a queste domande i giuristi non possono rispondere. Essi, nelle lotte attraverso le quali il mondo faticosamente si rinnova, mettono fuori la testa per ultimi, come vi dicevo da principio, quando è tornata la calma e il pericolo di nuovi sconvolgimenti è passato. Sono come i periti agrimensori, che tornano a ristabilire i confini dopo che è passata l’inondazione sulle campagne; ma essi l’inondazione non possono prevederla, né sono essi che la scatenano, né è loro il merito di averla fatta cessare; così i giuristi, che vengono a cose fatte a registrare in precise formule di diritto una realtà sociale ed economica già plasmata dalle forze politiche.

Non crediate dunque che io giurista possa indicarvi qual è l’articolo del codice che permette di fondare in via legale, con un ricorso in carta bollata al Presidente del Tribunale, gli Stati Uniti d’Europa. Gli Stati Uniti d’Europa possono crearli i popoli con la loro tenacia, con le loro lotte politiche, con le loro sofferenze, con le loro rivoluzioni e forse, ma speriamo di no, con le loro battaglie; non i giuristi, né le loro biblioteche e forse neanche i diplomatici intorno ai loro tavolini: gli Stati Uniti d’Europa devono essere una realtà politica e spirituale, una coscienza religiosa ed una fede operosa, prima di poter diventare una forma giuridica.

E tuttavia io vi dico questo: che le vie giuridiche per arrivare al federalismo possono essere diverse e molteplici: tutte le strade che un tempo conducevano a Roma conducono oggi agli Stati Uniti d’Europa.

Vi è in America un comitato di eminenti studiosi, tra i quali anche il nostro Borgese, che sta preparando con grande impegno e con grande ricchezza di mezzi una specie di carta costituzionale mondiale in cui dovrebbero essere consacrati in chiare formule giuridiche i diritti democratici dei cittadini di tutto il mondo: una specie di vuoto stampo predisposto, nel quale i popoli, quando si saranno messi d’accordo, potranno versare il metallo liquefatto della loro unione federale. Altre iniziative sono sorte e lavorano in Europa allo stesso scopo. Io non credo che questa sia la strada migliore; ma tuttavia questi generosi tentativi di anticipata legislazione mondiale non vanno scoraggiati, perché, se non altro, concorrono ad agitare di fronte alla coscienza pubblica i problemi del federalismo.

E c’è anche, già costituita ed in azione, una unione federalista interparlamentare, a cui partecipano molto numerosi i rappresentanti della assemblea italiana, la quale vuol preparare, attraverso una diretta intesa fra maggioranze parlamentari e senza intermediazione dei governi, una specie di Costituente federalista europea, sul tipo di quella che il nostro Montanelli vagheggiava tra gli italiani prima della unificazione.

Quale di queste iniziative riuscirà ad andare in fondo? Quale porterà a risultati pratici? Non è facile prevederlo; ma forse è supponibile che in un primo momento il superstato federale, invece di nascere perfetto, con tutti i poteri e gli organi della sovranità, si limiterà ad accentrare in sé i poteri e i mezzi per disporre dell’esercito comune e per regolare, anche occorrendo con la forza, le controversie fra Stati; e forse uno dei primi organi in cui comincerà a consolidarsi concretamente l’idea federalista sarà una Corte Suprema, posta a difesa dei diritti individuali di libertà, alla quale potranno direttamente ricorrere, varcando i confini nazionali, i cittadini di tutti gli Stati federati.

Certo è che questo immane problema dell’organizzazione europea e mondiale della pace – che non è un’utopia di un lontano avvenire, e neanche il problema di domani, ma è il tragico problema di oggi, di ora, di questo minuto che sta dinanzi a noi e che ci impone di scegliere nel ferreo dilemma tra la pace mondiale e il suicidio del genere umano, che è lì, di fronte a noi, sulla soglia – questo problema immenso come il mondo non può essere risolto con pochi articoli di una Costituzione, se prima non è risolto nelle coscienze degli uomini di buona volontà.
Sento qui la voce di un umile di buona fede: ma voi che siete alla Costituente perché non avete risolto il problema con qualche articolo della Costituzione? Sì, certo, nella nostra costituzione c’è un articolo il quale dice testualmente che l’Italia rinunzia alla guerra quale strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli e consente, a condizione di reciprocità e di uguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli. Vedete: limitazione di sovranità a condizione di reciprocità; siamo, anche dal punto di vista giuridico, sulla via esatta.

Ma più di questo che cosa può fare l’Italia da sola? Nella Costituzione della Repubblica italiana, finché l’Italia è sola in questa aspirazione, non può fare di più che inserire questa formula, che lascia aperte le vie dell’avvenire e il varco alla speranza.

Se una Costituzione somiglia a un’opera di architettura, questo articolo che vi ho letto somiglia a quelle pietre sporgenti che gli architetti lasciano su certe mura nade di un edificio, in previsione di dovervi nell’avvenire aggiungere e collegare un’altra parte, forse più ricca e più bella, dello stesso palazzo, non ancora compiuto nella realtà, ma già disegnato nella fantasia.

Queste pietre le chiamano “ammorzature”. Ecco, anche l’art.4 della nostra Costituzione è una ammorzatura, una di quelle pietre sporgenti su cui si appoggerà l’edificio che certamente, se non vogliamo che gli uomini finiscano, bisognerà costruire.

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