Gli Stati Uniti d’Europa, Ernesto Rossi (2/2)

5. L’EUROPA E IL PROBLEMA TEDESCO

La pace e la libertà non potranno essere veramente assicurate altro che nei limiti in cui si riuscirà ad estendere l’organizzazione federale. La nostra ultima meta deve quindi essere la federazione di tutti i popoli della terra, Ma una tale meta è ancora molto lontana. Troppo diverse sono ancora le varie civiltà, troppi popoli hanno ancora costituzioni incompatibili con un regime rappresentativo federale, perché una tale meta rientri nel campo dei possibili fini della guerra. Per ora ci dobbiamo contentare di avviarci verso di essa, formando un primo nucleo federale, e ponendo le condizioni che rendano possibile il suo ulteriore sviluppo.

L’organizzazione europea nel quadro dell’organizzazione mondiale

Molto facilmente, alla fine del presente conflitto, vedremo rinascere una nuova S.d.N., con carattere universale. Un tale organismo potrà dare un certo contributo alla conservazione della pace nel mondo se non gli verranno affidati dei compiti, quali erano quelli della defunta S.d.N., superiori ai compiti che possono essere assolti conservando l’assoluta sovranità degli stati, se cioè – rinunciando a stabilire disposizioni analoghe a quelle contenute nell’art.10 del vecchio “covenant” sulle garanzie territoriali, nell’articolo 16 sulle sanzioni, nell’articolo 19 sulla revisione dei trattati – ci si limiterà a creare u n organo di collegamento, per integrare il normale lavoro diplomatico delle diverse cancellerie e rendere più facile la collaborazione dei governi su alcuni argomenti di interesse comune.

Ma una tale lega servirà a ben poco se contemporaneamente non saranno eliminati i principali focolai dei futuri conflitti.

Fra questi focolai il più pericoloso è certamente l’Europa, che è stata, nello spazio di una sola generazione, l’epicentro e la causa di due guerre mondiali. L’anarchia internazionale ha ormai trasformato il nostro piccolo continente in un vero nido di vipere. La definizione delle nazionalità nelle zone a popolazione mista; la delimitazione di confini che consentano di conciliare esigenze tra loro inconciliabili – come sono quelle della unità dei gruppi nazionali, delle migliori difese strategiche naturali e della più economica utilizzazione delle risorse disponibili; lo sbocco al mare richiesto dai paesi situati nell’interno del continente; il regime degli stretti e dei fiumi che traversano il territorio di diversi stati; la integrazione dei sistemi economici nazionali con un sufficiente “spazio vitale”; la questione irlandese; la questione balcanica; l’antagonismo franco-tedesco e quello anglo-tedesco, son tutti problemi, nascenti dall’assoluta sovranità dei singoli stati, che richiedono in modo particolare la soluzione federalista, se si vuole garantire la libertà e la pace in Europa.

E se non c’è pace in Europa, non può esserci pace nel mondo.

Il blocco degli ottanta milioni di tedeschi

Fra tutti questi problemi, quello tedesco è il problema centrale. Ci conviene quindi ad esso dedicare maggiore attenzione.

Il blocco compatto di ottanta milioni di tedeschi, dotati di un’attrezzatura industriale potentissima, dominati da una classe composta da junker e da grandi baroni dell’industria con mentalità feudale, educati da più generazioni a dare il maggior rendimento nella loro qualità di soldati, animati da una mistica di superiorità razziale e da una forza di espansione insofferente di ogni limite, rappresentano un pericolo di asservimento e di morte per gli altri popoli europei. Alla fine della guerra tutti questi popoli, che hanno subito gli orrori della invasione, o ne hanno sentita incombente la minaccia, vorranno che il nuovo ordine metta la Germania in condizione di non poter più nuocere ai vicini.

Come sarà possibile conseguire questo scopo?

I reazionari sostengono che le potenze vincitrici dovrebbero imporre un Diktat molto più gravoso per la Germania del trattato di Versailles: disarmarla completamente e distruggere il suo potenziale industriale che potrebbe essere ancora diretto a scopi di guerra; costringerla a pagare in merci ed in lavoro forzato per tutti i danni da essa arrecati; spezzettarla in tante parti, di cui alcune dovrebbero essere incorporate negli stati vicini e le altre tenute sotto tutela dalle potenze della “Trinità”, che per mezzo di governanti di loro fiducia ne sorveglierebbero i bilanci, disintossicherebbero i giovani dall’educazione nazista, impedirebbero ogni tentativo di riarmo clandestino.

I reazionari vorrebbero insomma una pace quale l’avrebbe imposta Hitler se la Germania avesse vinto; solo rovesciando le parti.

Ma una tale pace poteva essere imposta durevolmente da Hitler, e non lo potrebbe dalle potenze della “Trinità”, appunto perché esse sono tre potenze e non una; non avendo gli stessi interessi in Europa, non è concepibile che possano per lungo tempo essere d’accordo in un’unica politica nei riguardi della Germania. Subito dopo l’altra guerra la Germania ottenne, in diverse importanti occasioni, l’appoggio dell’Inghilterra che, volendo continuare nella sua politica di “balance of power”, era preoccupata che la Francia non divenisse una potenza egemonica sul continente, e le consentì anche di riarmarsi perché sperava di adoprarla contro il “pericolo bolscevico”. Nel 1939 abbiamo poi visto la Russia accordarsi colla Germania per spartire la Polonia, ed occupare gli stati baltici. E’ prevedibile che di contrasti analoghi i tedeschi potrebbero valersi, qualunque fossero le condizioni imposte dal trattato di pace, per riacquistare in futuro tutto quello che avessero perso con la disfatta.

Inoltre né l’Inghilterra né gli Stati Uniti potrebbero esercitare a lungo il necessario controllo sulla Germania conservando i loro regimi democratici. Con libertà di stampa e libere elezioni, l’opinione pubblica non permetterebbe ai governanti inglesi e americani di trattare ottanta milioni di tedeschi come se fossero tutti dei criminali, e di mantenere per anni ed anni di seguito un esercito di occupazione in Germania. Specialmente le classi lavoratrici solidarizzerebbero, dopo poco, con gli operai “vittime del capitalismo”, non vorrebbero assumere la corresponsabilità di provvedimenti con i quali sarebbero affamati milioni di bambini, di vecchi, di donne, ed i loro compagni tedeschi verrebbero privati dei diritti politici, che con lunghe lotte essi hanno ottenuto, quale riconoscimento della loro stessa dignità di uomini. L’Inghilterra e gli Stati Uniti non potrebbero, insomma, continuare a lungo a tenere il piede sul collo della Germania che trasformandosi in stati autocratici, totalitari.

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Conseguenze di una pace cartaginese

Quali, d’altronde, sarebbero le conseguenze economiche generali di una pace cartaginese?

Per distruggere il potenziale bellico della Germania occorrerebbe non solo distruggere l’industria degli armamenti, l’industria siderurgica e buona parte di quella meccanica e chimica, ma anche ridurre sostanzialmente l’industria elettrica, quella dei trasporti e molte altre industrie che sono delle prime complementari o sussidiarie. Già questa sarebbe una cosa assurda, pazzesca, dopo che la guerra ha ridotto in rovine tanta parte dell’attrezzatura industriale del nostro continente. Per non morire di fame, per riprendere al più presto la vita normale, non si può continuare nelle distruzioni anche nel tempo di pace, ma si deve utilizzare nel modo più razionale possibile, a beneficio di tutti, fin l’ultimo stabilimento, fin l’ultima macchina, fin l’ultimo operaio qualificato, che saranno ancora disponibili.

Pretendere dai tedeschi il complesso pagamento dei danni di guerra, indipendentemente dalla loro possibilità di pagamento, vorrebbe dire asservirli per sempre alle potenze vincitrici, rinunciare alla loro capacità inventiva ed organizzativa nel campo industriale e commerciale, aumentare enormemente la loro miseria. Ed ormai tutti ben conosciamo quale stretta solidarietà avvinca l’economia dei diversi paesi del nostro continente. La floridezza della Germania è condizione necessaria del benessere di tutta l’Europa, perché la Germania è il mercato più importante per la vendita e gli acquisti da parte degli altri paesi; chi vende ha interesse che il suo cliente sia ricco, e chi compra ha interesse che il suo fornitore sia attrezzato in modo da produrre al minimo costo.

Ed anche se le potenze vincitrici fossero in grado di imporre una pace cartaginese, e fossero disposte a sopportarne il costo, quanto veramente potrebbe durare una tale pace?

Fare del popolo tedesco un nuovo popolo maledetto, mantenerlo diviso, nella soggezione e nella miseria, vorrebbe dire porre una polveriera nel centro dell’Europa. Nessuno può ragionevolmente pensare che gli ottanta milioni di tedeschi – dopo le innumerevoli prove che hanno dato di solidarietà nazionale, con le tradizioni comuni di gloria militare lasciate dalle ultime guerre – si adatterebbero allo spezzettamento della Germania, accetterebbero di stare sotto la tutela degli stranieri e di lavorare senza speranza di redenzione a loro profitto. Qualsiasi propaganda indirizzata a fare abbandonare ai tedeschi le loro idee naziste e ad educarli alla democrazia, alla collaborazione pacifica con gli altri popoli, venendo dagli oppressori o da individui al loro servizio, darebbe risultati completamente opposti a quelli che ci si vorrebbe prefiggere. Ben presto si presenterebbe un nuovo Hilter che, levandosi contro le ingiustizie patite dal suo popolo, facendo appello ai sentimenti nazionalistici, promettendo resurrezione e vendetta, avrebbe ancora dietro di sé tutta la Germania, e di nuovo darebbe fuoco alle polveri.

Chi sostiene altrimenti, o è in malafede o dimostra di non aver capito niente della tragica esperienza degli ultimi trent’anni.

La Germania nella federazione europea

L’Europa ha bisogno della Germania. Gli ottanta milioni di tedeschi devono essere condotti a collaborare colle loro doti migliori alla vita degli altri popoli europei, se non si vuole che continuino a essere l’incubo pauroso, il cancro mortale della nostra civiltà.

Chi dubita che il popolo tedesco possa mai essere condotto a ciò, e sia destinato ad essere o il padrone o lo schiavo degli altri popoli europei, dimentica le decine e le centinaia di migliaia di tedeschi morti o languenti nelle prigioni e nei campi di concentramento od esuli nelle diverse parti del mondo, perché non hanno voluto accettare, neppure passivamente, la corresponsabilità della politica del Fuhrer, e non ricorda che lo stesso giudizio che oggi si dà del popolo tedesco era comunemente dato del popolo inglese durante la sua espansione imperialistica e del popolo francese dopo le guerre napoleoniche.

Tutti i criminali, a qualunque paese appartengano, dovranno essere severamente puniti. Ma il popolo tedesco deve essere messo in condizioni di poter riprendere il suo posto, a parità di diritti e di doveri, nel concerto dei popoli europei. E questo non è possibile se non comprendendo la Germania nella organizzazione federale degli Stati Uniti d’Europa. Solo una tale soluzione potrà ridurre al minimo l’opposizione tedesca ai provvedimenti transitori necessari per assicurare la vita delle istituzioni liberali in Germania: instaurazione al potere degli elementi sinceramente democratici, distruzione radicale del sistema feudale agrario e industriale, decentramento dell’amministrazione, educazione anti-nazista nelle scuole, ecc., perché saranno provvedimenti transitori, presi, non in odio al popolo tedesco, ma per metterlo in condizione di eguaglianza con gli altri popoli nell’organizzazione federale. Solo con la creazione degli Stati Uniti d’Europa si potrà disarmare per sempre la Germania, senza umiliarla e quindi senza esasperarne i sentimenti nazionalistici, perché contemporaneamente gli altri stati rinunceranno ai loro eserciti che verranno tutti sostituiti dalle forze armate federali. Solo l’organizzazione federale potrà dare la sicurezza collettiva senza distruggere il potenziale industriale tedesco, utilizzando a vantaggio di tutti le industrie pesanti, quelle chimiche e le altre grandi industrie della Germania, sotto un controllo che verrà esteso alle analoghe industrie degli altri paesi.

6. L’UNITA’ EUROPEA

Non solo l’Europa è la parte più malata, quella che richiede un più urgente e radicale rimedio se si vuole stabilire la pace e la giustizia nel mondo. Essa è anche la parte che, per motivi economici e spirituali, si presenta come la più adatta ad essere subito riunita in una organizzazione federale.

La fisionomia economica dell’Europa

La contiguità territoriale di tutti i paesi del continente crea una interdipendenza tanto stretta tra i loro interessi che la divisione in 26 domini doganali, con 13 sistemi monetari, quale esisteva prima della guerra, era molto più anacronistica, assurda, di quel che era alla metà del secolo scorso, la suddivisione della Germania in 39 stati, e quella dell’Italia in 7 stati, ognuno con proprie dogane e propria moneta.

Quando, nel 1840, Sir Robert Peel si vide costretto, da una crisi ministeriale, a lasciare Roma, dove si trovava in vacanza, i suoi segretari gli indicarono l’itinerario più breve e i mezzi di comunicazione più rapidi. Constatarono allora che, per andare da Roma a Londra, egli avrebbe impiegato esattamente il medesimo tempo che era stato necessario a Giulio Cesare cinquant’anni prima della nascita di Gesù Cristo. Con il progresso della tecnica dei trasporti, le distanze si sono da allora ridotte in modo che un aviatore, attraversando il continente, quasi non fa in tempo ad accorgersi della divisione degli stati sui quali sorvola. Ma l’organizzazione internazionale resta in sostanza qual era quando ancora si viaggiava con la diligenza e non si conosceva né telegrafo, né radio.

Con l’unificazione dell’Europa si potrebbe dare la migliore soluzione tecnica al problema della produzione e della distribuzione internazionale dell’elettricità, utilizzando in pieno molte fonti di energia che oggi sono sprecate per la scarsità della domanda locale, e integrando i diversi sistemi di produzione elettrica in modo da compensare le deficienze stagionali in certe zone con le contemporanee eccedenze in altre zone.

L’unificazione dell’Europa renderebbe inoltre possibile collegare le grandi autostrade dei diversi paesi europei con delle dorsali che ne verrebbero a costituire il sistema nervoso: ad esempio, una trasversale transalpina, un’altra dai Balcani al Baltico, una longitudinale Parigi-Vienna-Atene ed un’altra Parigi-Berlino-Varsavia-Mosca, come proponeva il memorandum del B.I.T. nel 1931 sul problema della disoccupazione. Essa faciliterebbe anche il coordinamento delle vie navigabili che traversano parecchie nazioni, così com’era prospettato nel memoriale stesso: il collegamento del Reno col Rodano, del sistema della Germania del Nord con quello del Danubio, ecc.

Queste opere – e molte altre se ne potrebbero ricordare, importantissima, fra le quali il canale sotto la Manica – suggerite dalla tecnica moderna, che richiede di pianificare su una scala più vasta di quella consentita dal territorio delle unità statali per ottenere il maggior rendimento possibile delle risorse disponibili, sono state finora impedite dalla suddivisione del continente in tanti piccoli stati sovrani, gelosi e paurosi l’uno della potenza dell’altro.

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Gli scambi commerciali dell’Europa

La contiguità territoriale, rendendo più convenienti gli scambi commerciali fra i paesi europei degli scambi fra gli stessi paesi e quelli situati fuori del continente, dà delle caratteristiche ancor più precise alla fisionomia economica dell’Europa.
Ad eccezione dell’Inghilterra, i paesi mandano in Europa la maggior parte delle loro esportazioni, e tutti – salvo l’Inghilterra e la Francia ricevono dagli altri paesi europei la maggior parte delle loro importazioni. Le eccezioni dell’Inghilterra e della Francia sono una conseguenza delle tariffe preferenziali, determinate dalla politica che esse fanno per mantenere più intimi collegamenti con le diverse parti dei loro imperi.
Nel 1935 – l’anno più recente, relativamente meno influenzato da congiunture eccezionali (nell 1936 ci fu la guerra italo-etiopica; nel 1936-37 il 2boom”, nel 1937-38 l’accumulamento degli stocks in previsione della guerra) il commercio intraeuropeo (URSS esclusa) costituiva il 64 per cento del valore complessivo delle esportazioni e il 54 per cento del valore complessivo delle importazioni europee. Il commercio dell’Europa col resto del mondo rappresentava solo il 36 per cento delle esportazioni e il 46 per cento delle importazioni dei paesi europei. Poiché la popolazione dell’Europa (sempre URSS esclusa) è il 19 per cento della popolazione di tutto il mondo, queste cifre significano che, in media, un europeo acquistava dagli europei per un valore più che cinque volte superiore a quello degli acquisti che faceva dagli abitanti degli altri continenti, e vendeva agli europei delle altre nazioni per un valore quasi ventiquattro volte superiore a quello delle vendite che faceva agli abitanti degli altri continenti.
La pubblicazione della S.d.N. – Le commerce de l’Europe, Genève, 1941 – da cui abbiamo ripreso le cifre sopra riportate, fa anche osservare che esse subirebbero scarse modificazioni se si volesse tener conto della URSS, poiché il commercio di questo paese rappresentava, nel 1935, solo il 2 per cento delle importazioni ed il 3 per cento delle esportazioni complessive europee. E la variazione sarebbe nel senso di aumentare l’importanza del commercio intraeuropeo, in confronto al commercio dell’Europa col resto del mondo, dato che il commercio dell’URSS si svolgeva principalmente con l’Europa.
La solidarietà economica dei paesi del continente europeo, in conseguenza degli scambi commerciali, risulterebbe molto più evidente se si tenesse conto che circa la metà del traffico dell0’Europa con il resto del mondo riguardava i domini britannici, l’India, e i territori europei d’oltremare, per i quali vigevano, come abbiamo detto, delle tariffe preferenziali, le quali creavano una convenienza di traffici che altrimenti non ci sarebbe stata. In particolare l’Inghilterra, in conseguenza degli accordi di Ottawa, esportava verso l’Europa continentale meno di un terzo del valore delle sue complessive esportazioni e ne importava meno di un terzo del valore complessivo delle sue importazioni. Il suo commercio imperiale era del 7 per cento superiore al suo commercio europeo.

La fisionomia morale dell’Europa

Inoltre va rilevato che l’Europa ha già un’anima, ha già una sua unità spirituale. Ben ci se ne accorge quando si confronta la sua civiltà con le civiltà asiatiche, ed anche con quelle del Nuovo Mondo.
Questa unità spirituale nasce coll’impero romano, si nutre della cultura ellenica e del pensiero cristiano, sempre più si afferma e si consolida attraverso i grandi avvenimenti politici, che per secoli hanno contemporaneamente sommosso tutti i popoli del continente, ed attraverso le grandi correnti del pensiero che hanno dato alle diverse epoche un’unica fisionomia, un unico tono: il papato ed i movimenti monastici, le eresie, il feudalesimo, l’Impero, le crociate, i comuni, il Rinascimento, le università di studi, la Riforma e la Controriforma, l’assolutismo, l’illuminismo, la rivoluzione francese, il romanticismo, i moti per la formazione delle nazionalità, la rivoluzione industriale, il parlamentarismo, la democrazia, il socialismo, sono tutte esperienze vissute, sofferte insieme, dai popoli del nostro continente, esperienze che li hanno messi di fronte ai medesimi grandi problemi, e formano la trama sulle quali sono intessute le loro particolari storie nazionali.
Gli europei hanno ormai un certo loro modo di vivere, un certo loro modo di sentire e di impostare i problemi, un certo loro modo di concepire la vita della famiglia, ed i rapporti tra le diverse classi sociali. Nonostante i contrasti e le guerre, al di sopra delle frontiere, migliaia e migliaia di europei dei diversi paesi – che ben si può dire siano il sale delle loro terre – hanno la medesima Weltanschauung, parlano lo stesso linguaggio, si pongono i medesimi obiettivi, s’intendono fra loro meglio di quanto riescano a intendersi con i connazionali.
Questi fattori economici e spirituali costituiscono il cemento che renderebbe salfa fin dall’inizio la unità federale dell’Europa, E’ per questo che essa ci appare, oltre che più rispondente ai bisogni dell’ora, storicamente più realizzabile e vitale – una volta che fosse realizzata – di altre costruzioni politiche federali concepite per unire alcuni popoli di altri continenti: anche dell’unione dei popoli del Commonwealth britannico, sostenuta da L. Curtis – l’ascoltato consigliere del governo inglese per la costituzione del Sud Africa dopo la guerra anglo-boera – e dell’unione degli americani degli Stati Uniti con gli inglesi ed i popoli abitanti i paesi europei della costa atlantica, patrocinata da Clarence Streit, il giornalista americano che con il libro Union Now inizò nel 1938 il movimento della “Federal Union” in America.
Le guerre fra popoli europei appaiono ormai a tutti gli uomini di pensiero come guerre civili. Sono guerre tra fratelli nemici: fratelli che coltivano lo stesso campo, e che finora si sono odiati, dilaniati fra loro perché la casa in cui abitavano impediva una pacifica convivenza. Alla fine della guerra la casa sarà quasi completamente crollata. Dobbiamo proporci di ricostruirla in modo che tutti possano avere il campo – la nostra vecchia Europa – possa essere coltivato con maggiore frutto, a beneficio nostro e a beneficio di tutta l’umanità.

GLI STATI UNITI D’EUROPA

Non è possibile determinare fin d’ora i limiti territoriali degli Stati Uniti d’Europa che dovrebbero essere creati alla conclusione della pace. Ma sembra che il minimo necessario per cominciare, sia costituito da un nucleo di paesi che comprenda almeno le quattro grandi potenze dell’Europa occidentale: Inghilterra, Francia, Germania e Italia.

La posizione dell’Inghilterra

Senza l’Inghilterra, gli altri paesi non consentirebbero di associarsi con vincoli federali alla Germania, perché solo l’Inghilterra potrebbe essere un sufficiente contrappeso al blocco degli ottanta milioni di tedeschi. E questo non tanto per la sua forza demografica ed economica, quanto per l’educazione politica che il popolo inglese si è formata con l’esperienza di autogoverno. Senza una sua diretta partecipazione, ben difficilmente la federazione europea riuscirebbe a superare le difficoltà, specialmente gravi nel primo periodo, col metodo democratico, necessaria garanzia di tutte le libertà.
Il progetto che Sir Walter Layton, l’eminente economista inglese ha esposto il 3 marzo 1944 all’Università di Oxford, di una organizzazione federale degli stati europei all’infuori dell’Inghilterra e dell’URSS, sotto l’egida di queste due grandi potenze e degli Stati Uniti, che insieme dovrebbero garantire il rispetto dell’ordine e della legge sul continente, oltre ad essere inattuabile perché richiederebbe una permanente, inconcepibile comunanza negli interessi delle maggior potenze vincitrici, ripugnerebbe alla nostra coscienza di uomini liberi, perché significherebbe sottoporre ad una specie di protettorato di una nuova Santa Alleanza i paesi compresi nella federazione.
Noi pensiamo che l’Inghilterra debba far parte della futura federazione europea ed assumere perciò, alla fine della guerra, quale grande potenza vincitrice, una funzione di guida e di direzione, analoga a quella che ebbe il Piemonte nella formazione dell’unità italiana.
Questa soluzione presenta evidentemente dei pericoli. L’organizzazione federale potrebbe divenire uno strumento nelle mani dei reazionari britannici per anglicizzare a loro vantaggio il continente. Nostro compito, il compito di noi uomini di tendenze progressiste dei paesi europei fuori dell’Inghilterra, è analogo a quello che seppero così bene assolvere Manin, Minghetti, Settembrini, De Sanctis, Crispi e gli altri patrioti liberali dei diversi stati in cui era divisa l’Italia. Con la loro intelligente collaborazione con gli elementi progressisti piemontesi, con il loro continuo controllo, essi impedirono alla monarchia sabauda di piemontesizzare l’Italia e riuscirono a italianizzare il Piemonte. Similmente noi dovremmo impedire agli imperialisti britannici di anglicizzare l’Europa, ed arrivare invece, colla nostra intelligente attività, all’europeizzazione dell’Inghilterra.

Il Commonwealth britannico

La prospettiva di una federazione europea, cui partecipi l’Inghilterra, fa nascere diversi problemi. Per i limiti che ci siamo imposti nel presente opuscolo – che vuole essere solo un’introduzione allo studio dell’argomento – ci contenteremo di accennare a quelli che ci sembrano i più importanti. Avvertiamo però che si entra qui in un campo molto incerto, in cui le soluzioni proposte sono necessariamente assai opinabili, anche tenendo fede all’idea centrale dell’Unione federale europea.
In primo luogo – ci si osserva – cosa ne sarebbe del Commonwealth britannico? Potrebbe l’Inghilterra consentire alla sua dissoluzione?
Ma la partecipazione dell’Inghilterra agli Stati Uniti d’Europa non significherebbe necessariamente la dissoluzione del Commonwealth. E’ ciò che pur riconoscono eminenti costituzionalisti, che hanno studiato a fondo la questione. Invero gli inglesi sono straordinari nel trovare delle formule giuridiche che sembrano assurde dal punto di vista dell’astratta teoria del diritto e che pur funzionano egregiamente come compromessi dettati dallo stato di cose esistente. Non abbiamo anche ultimamente visto il Canadà entrare nell’Unione Panamericana, della cui difesa sono responsabili gli Stati Uniti, senza per questo rinunciare al vincolo che lo lega alla Corona britannica?
In tutti i modi l’atteggiamento dei vari domini nei riguardi di una federazione europea sarebbe determinato da interessi molto diversi.
Il Canadà è già nell’orbita degli Stati Uniti d’America, tanto che potrebbe preferire l’unificazione con loro piuttosto che unirsi ad una federazione europea.
L’Australia e la Nuova Zelanda, invece, nonostante la lontananza, dipendono talmente, per la loro prosperità, dall’Inghilterra e dall’Europa, che potrebbero essere più facilmente indotte a divenire membri della federazione. Ed a ciò sarebbero spinte anche da ragioni militari, per la difesa contro il “pericolo giallo”.
Col trasferimento delle colonie dell’Inghilterra e della Francia alla federazione, la maggior parte del continente africano verrebbe da essa amministrata. Ciò renderebbe più probabile l’adesione del Sud Africa, che potrebbe anche essere indotto ad aderire dalle medesime ragioni di difesa che varrebbero per l’Australia e la Nuova Zelanda.
D’altronde, se pure i domini non volessero divenire membri della federazione, a conti fatti, gli inglesi avrebbero certamente ancora convenienza a favorirne la creazione e ad aderirvi, specialmente se avessero ben chiaro che senza una partecipazione del loro paese non sarebbe possibile creare alcuna unità federale in Europa, e che l’alternativa a tale unità sarebbe la continuazione del caos sul continente fino alla sua unificazione sotto l’egemonia dello stato militarmente più forte.
L’importanza di un mercato europeo unificato per l’Inghilterra non sarebbe neppure da mettere in confronto con l’importanza dei mercati dei domini. Va inoltre considerato che gli inglesi, negli stessi domini, anzi in tutto l’Impero, sono relativamente pochi. Se si tolgono i cinque milioni e un quarto del Canadà, che già gravitano verso gli Stati Uniti, ci sono solo sei milioni e tre quarti di inglesi nell’Australia, un milione nel Sud Africa, un quarto di milione in India, ed un altro quarto nei possessi coloniali. Anche se l’Inghilterra fosse sicura della loro collaborazione, non potrebbe contare su una forza sufficiente per garantire la sicurezza dell’Impero quando l’Europa si fosse unificata in forma imperiale militarista. Questa guerra l’ha ben dimostrato. Ed ha dimostrato anche, con l’atteggiamento dell’Irlanda, e con l’importanza assunta nel Sud Africa dell’opposizione alla politica interventista, che il Commonwealth non corrisponde ad una solidarietà sufficiente tra le diverse parti per consentire di farvi affidamento in ogni occasione.
Quanto all’India, essa è sulla strada di ottenere la sua completa indipendenza, Per la sua situazione geografica, per l’immenso numero dei suoi abitanti e l’enorme estensione del suo territorio, per la sua diversa civiltà, non potrebbe certamente essere subito unita ad una federazione di popoli europei. Suo compito sarà di organizzare in forma federale i numerosi popoli che la compongono, arrivando alla completa autonomia, contemporaneamente alla formazione degli Stati Uniti d’Europa.

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La posizione della Russia

Da un quarto di secolo i rapporti dell’URSS con il resto del mondo sono avvelenati da reciproche diffidenze e avversioni, e l’URSS ha costituito un mondo politico chiuso in sé. Nella presente guerra abbiamo visto che l’URSS non può fare a meno della cooperazione di tutti gli altri paesi, né questi possono fare a meno della cooperazione sovietica.
Su quali basi è concepibile questa cooperazione, in particolare con l’Europa democratica?
Alcuni pensano che essa possa fondarsi solo sulla trasformazione dei paesi europei in stati collettivisti che aderiscano man mano all’Unione Sovietica, la quale ha già una struttura politica capace di progressiva estensione. Quest’idea, che è stata accarezzata per circa un quarto di secolo da tutti i fautori della soluzione comunista, risulta di impossibile realizzazione in conseguenza delle troppo energiche forze spirituali, politiche ed economiche che riluttano alla trasformazione della civiltà europea in forme comuniste. Quantunque sempre più forte si senta dappertutto in Europa il bisogno di creare delle istituzioni socialiste che garantiscano un grado più elevato di giustizia sociale, nessun popolo desidera rinunziare alle forme di vita libera che nel campo politico, in quello economico e in quello spirituale, costituiscono la base stessa della civiltà occidentale. Una ricostruzione dell’Europa nella quale siano conservati i suoi valori tradizionali è concepibile solo sotto regimi democratici, e questa esigenza ha finito per essere sentita dagli stessi più entusiasti esaltatori dell’URSS, i quali dalla lotta attiva contro il nazismo sono stati portati a farsi propagandisti di tali regimi, E se parliamo oggi di una federazione europea, possiamo farlo solo in quanto ci prospettiamo una federazione di stati democratici, che rinunzino a favore del potere federale a un a parte della loro sovranità e adoprino, sia nell’amministrazione dei loro affari interni che in quella degli affari esteri comuni, gli strumenti politici della democrazia.
C’è, d’altra parte, chi – escludendo che l’unificazione europea possa farsi entro gli schemi politici ed economici comunisti – pensa debba in ogni modo farsi con l’adesione dell’URSS alla federazione democratica europea. Naturalmente, la federazione europea dovrebbe, fin dal suo nascere, essere aperta a tutti i paesi che potessero e volessero farne parte. Se l’URSS si trasformasse in uno stato veramente democratico, sarebbe perciò augurabile che prendesse il suo posto nella federazione. Di fatto però l’URSS non è, per ora, un paese democratico; e, se lo diventerà, lo diventerà solo per il suo autonomo sviluppo, essendo troppo grande e potente perché qualche foeza esterna possa mai imporle una tale trasformazione. L’URSS è un corpo di una quarantina di popoli, guidati dal popolo russo, che solo da poco si è affacciato all’orizzonte della civiltà europea; da essa ha attinto molte conquiste tecniche, ma ha ancora sue caratteristiche politiche, che risalgono ai tempi antecedenti la rivoluzione bolscevica, e che lo differenziano profondamente dai popoli europei. Mentre infatti per questi il progresso ulteriore ha ormai come condizione imprescindibile la struttura politica democratica, il progresso dell’URSS è ancora fondato sul principio autocratico, per cui la forza motrice di tutti gli sviluppi proviene dai governanti. I dirigenti bolscevichi, rendendosi sempre meglio conto di questa continuità storica, sempre più consapevolmente si considerano gli eredi e i prosecutori dei grandi zar riformatori.
E’ da aspettarsi, o comunque da augurare, che i popoli sovietici, dopo essersi impadroniti della tecnica occidentale, assimilino anche quel senso dei valori della personalità, che finora è stato in loro deficiente, e compiano le trasformazioni politiche che ne conseguono. Ma, ripetiamo, questo sviluppo non può essere imposto loro dal di fuori, e, specialmente in seguito alle vittorie riportate in questa guerra, è prevedibile che il regime sovietico conserverà per un tratto abbastanza lungo – quasi certamente per il tratto di tempo in cui la federazione europea dovrà formarsi – il suo carattere di stato assoluto. Stando così le cose non sarebbe concepibile una partecipazione dell’URSS alla federazione che, per essere veramente tale, deve di necessità avere un regime rappresentativo.
Finché nell’URSS non fosse consentita l’opposizione, non fosse possibile costituire partiti diversi da quello governativo, e non fosse loro riconosciuto il diritto di sostituirlo al potere quando rappresentassero la maggioranza nel paese, finché mancassero la libertà di stampa, di associazione e tutte quelle altre libertà e garanzie che sono caratteristiche di un regime democratico, l’URSS non potrebbe mandare all’assemblea federale veri rappresentanti del popolo, ma solo delegati del suo governo, non potrebbe permettere che la federazione difendesse la libertà dei cittadini russi contro eventuali oppressioni del loro governo, non potrebbe rinunziare effettivamente ad alcun aspetto della sua sovranità. Una organizzazione confederale sul tipo della S.d.N. è concepibile fra stati di strutture politiche sostanzialmente differenti. Una federazione sarebbe un non senso.

L’atteggiamento dei governanti sovietici

Poiché risultano impossibili, urtando contro ostacoli troppo forti, tanto un’unione sovietica estendentesi a tutta l’Europa, quanto una federazione europea comprendente l’URSS, c’è chi pensa non resti che rinunziare all’idea stessa di unione europea perché, se si cercasse di arrivarci senza l’URSS, apparirebbe inevitabilmente ai governanti sovietici come un blocco politico antirusso, e perciò mai e poi mai essi la vorrebbero permettere. Questa conclusione è però completamente assurda, Significherebbe solo la disperata rinunzia a salvare l’Europa e la sua civiltà.
I governanti sovietici hanno delle buone ragioni per opporsi a proposte di federazioni regionali che – mentre non contribuirebbero in alcun modo alla soluzione del problema europeo, portando solo alla formazione di una o due altre grandi potenze – potrebbero ancora assumere la funzione di “cordone sanitario” contro l’URSS a vantaggio dell’uno o dell’altro gruppo di maggiori stati occidentali. Ma se pensassero a mantenere l’Europa in una “condizione atomica” – come ha scritto Aneurin Bevan, il rappresentante laburista dei minatori del Galles alla Camera dei Comuni, in un articolo sulla Tribune del 10 aprile u.s. – ossia se pensassero a creare nell’occidente un certo numero di nazioni deboli, politicamente divise dal punto di vista della loro organizzazione, una cintura di piccole nazioni sotto l’influenza economica e politica dell’URSS tutti gli uomini di tendenze progressiste dell’Europa occidentale avrebbero il diritto e il dovere di opporsi. Questa politica a corta vista equivarrebbe a spingere di nuovo l’Europa verso l’anarchia, di cui abbiamo esaminato le conseguenze, e porterebbe la stessa URSS a conservare, magari a rafforzare ulteriormente, la sua struttura militarista, che ha nuociuto agli effetti del suo sviluppo interno, almeno quanto ha nuociuto a quello degli altri paesi.
Comunque, riteniamo sarebbe un errore partire oggi dal presupposto che i governanti sovietici saranno costretti ad opporsi ad una federazione europea. Questa non dovrà sorgere in funzione antirussa; anzi dovrà contare sull’aiuto e la collaborazione russa. Non sarà impossibile escogitare formule giuridiche e politiche che garantiscano in modo particolare i più specifici interessi sovietici nell’Europa occidentale. Sono argomenti questi sui quali non possiamo qui soffermarci. Quando ci fosse l’accordo sulle direttive generali, i problemi secondari verrebbero facilmente risolti. Ed i governanti sovietici, se si troveranno davanti alla decisa volontà di federarsi dei popoli europei, potranno ben rendersi conto che un’unione federale europea, distruggendo radicalmente il militarismo delle grandi potenze, assicurando l’ordine giuridico nel continente, ed essendo, per sua natura, un organismo non militarista, costituirebbe la migliore garanzia di pace anche per l’URSS, e le darebbe la possibilità di attuare quei principi della costituzione del 1936, che sono rimasti finora sulla carta, in parte proprio per le necessità militari della sua difesa.
Sarebbero così gettate le basi più sicure per una convivenza pacifica tra la civiltà europea e quella sovietica, e per una loro mutua, crescente comprensione.

(10. segue)

8. UTOPIA E REALTA’

Finché le nuove idee politiche non si concretano in istituzioni giuridiche ed economiche, i “Realpolitiker” sempre le dileggiano come utopistiche, campate nel vuoto.
Nel 1786 Josiah Tucker, il filosofo ed economista liberale decano di Gloucester, di cui Turgot tradusse le Important questions of Commerci, scriveva:
“Quanto alla futura grandezza dell’America, e all’idea che essa possa mai divenire uno stato potente, sia in forma repubblicana che monarchica, è questa una delle idee più ingenue ed utopistiche che possa essere concepita da un romanziere. Le reciproche antipatie, e gli interessi contrastanti degli americani, le differenze dei loro governi, delle loro abitudini e dei loro costumi, danno la certezza che essi non potranno trovare mai un centro di unione, né un interesse comune. Mai essi potranno raggiungere l’unificazione in uno stato compatto, con qualsiasi forma di governo; sino alla fine dei secoli resteranno separati, sospettosi e diffidenti gli uni degli altri, divisi e suddivisi in piccole comunità o principati, in rapporto alle barriere naturali costituite dalle grandi baie del mare, dai vasti fiumi, dai laghi e dalle catene delle montagne” (Brano citato a pag.58 dell’ Union Now di Clarence Streit).
Nel 1844, uno dei maggiori storici del tempo, che pure aveva una lunga pratica delle cose politiche, Cesare Balbo, in un libro che ebbe uno straordinario successo, dopo aver a lungo spiegato come “nessuna nazione fu riunita meno sovente che l’italiana”, metteva in luce le ragioni per le quali si doveva ritenere impossibile la unificazione dell’Italia e qualificava l’idea unitaria mazziniana come “una pazzia”. “Questa – egli scriveva – è diciam la parola vera, puerilità, sogno tutt’al più di scolaruzzi di retorica, da poeti dozzinali, da politici da bottega” (Delle speranze d’Italia, pag.26, ediz. UTET, 1925).

Circostanze a noi favorevoli

Non possiamo oggi prevedere quale sarà la situazione, e quindi quali possibilità concrete di azione, si presenteranno alla fine della guerra. Ma qualunque siano per essere le difficoltà alla costituzione degli Stati Uniti d’Europa, noi siamo fermamente convinti che questo, e questo solo, è un obbiettivo veramente degno di essere perseguito, un obbiettivo che merita la nostra passione e l’impiego di tutte le nostre forze. Se anche, per avversità di circostanze, dovessimo fallire, avremo almeno combattuto per qualcosa che può dare un significato più alto alla nostra vita.
Quel che ci sembra veramente utopistico è, invece, pensare che possa esserci pace e libertà nel nostro continente, ridando solo un po’ di fiato alla S.d.N., o con lo spezzettamento della Germania ed una divisione dell’Europa in zone d’influenza delle potenze della “Trinità”, o con una politica concorde di tali potenze per esercitare in comune le funzioni di “polizia internazionale”, o con qualsiasi altro sistema che non comporti alcuna menomazione della sovranità degli stati nazionali.
E’ certo che in gran parte dipenderà da noi, dalla nostra intelligenza e dalla nostra volontà, se le circostanze saranno più o meno favorevoli. Ma già nella situazione presente è possibile riconoscere alcuni fattori importanti al nostro attivo.
Hitler, passando il rullo compressore delle sue divisioni corazzate su quasi tutti i paesi dell’Europa, spostando coattivamente da una parte all’altra del continente 44 milioni di uomini, accomunando la sorte dei popoli che hanno subito l’invasione, coordinando le loro diverse economiche con organismi che non tengono conto dei confini territoriali, ha già fatto fare grandi passi all’unificazione dell’Europa.
Ed i governi americano e britannico hanno pure già molto proceduto nella medesima direzione nei paesi che sono sotto la loro diretta tutela, o che subiscono l’influenza della loro politica, con pianificazioni internazionali per attuare la legge “prestiti e affitti” e con l’organizzazione dell’U.N.R.R.A. Di particolare importanza sono stati, a questo riguardo, anche i provvedimenti con i quali il governo britannico ha di fatto già cominciato ad attuare l’idea centrale del piano Keynes – per arrivare ad una stabilità della moneta attraverso un sistema di finanziamenti internazionali, contabilizzati da un unico centro – estendendo la “sterling area” oltre che a tutti i territori del Commonwealth, a quelli della Francia, del Belgio, dell’Olanda e delle loro colonie, con accordi che dovranno conservare la loro validità dopo la fine della guerra.
La unificazione dell’Europa risulta poi molto facilitata dal rovesciamento, avvenuto negli ultimi decenni, delle monarchie autocratiche, che fondavano sul diritto divino la pretesa di tenere come loro particolare appannaggio i paesi sui quali dominavano: le dinastie degli Hohenzollern, degli Asburgo, dei Romanov, dei Borboni, che avrebbero costituito un ostacolo insuperabile alla federazione dei loro popoli, sono state spazzate via per sempre, ed è probabile che la dinastia dei Savoia segua presto la loro sorte. Le dinastie rimanenti, adempiendo funzioni che, in sostanza, non differiscono altro che per il loro carattere ereditario da quelle dei presidenti delle repubbliche, potrebbero accordarsi benissimo colle istituzioni federali.
Infine va considerato che i bombardamenti terroristici e la minaccia di invasione hanno ormai convinto più di qualsiasi propaganda il popolo inglese che la Gran Bretagna fa ben parte del nostro continente, e che sarebbe assurdo cercare di prendere la vecchia politica di isolamento di “bilance of power. Quando si è vista in faccia la morte, come l’hanno vista gli inglesi nel 1940, si riesce più facilmente a capire quel che era suggerito dalla pacata ragione in tempi relativamente tranquilli.

La proposta di unione franco-britannica

Ricordiamo che, subito prima del crollo della Francia, il 16 giugno 1940, il governo iglese fece proporre al governo di Reynaud un’unione tra i due paesi alleati. Secondo questo progetto “la Francia e l’Inghilterra non avrebbero più costituito due nazioni, ma un’unione franco-britannica. La costituzione dell’unione avrebbe preveduto organi comuni per la difesa, per i rapporti con l’estero, per la politica finanziaria ed economica. Ogni cittadino francese avrebbe goduto immediatamente della cittadinanza britannica; ogni suddito britannico sarebbe divenuto cittadino francese”.
Il 16 giugno 1940 rappresenta per noi una data di enorme significato, perché quel giorno l’idea degli Stati Uniti d’Europa passa dal campo delle astrazioni teoriche al campo della pratica politica. Nonostante le difficoltà derivanti dalla costituzione repubblicana della Francia, dalla appartenenza dell’Inghilterra al Commonwealth, dall’esistenza di due distinti imperi coloniali, e da tante altre avverse circostanze degli uomini di governo hanno già riconosciuta la possibilità concreta di costituire un’assemblea legislativa franco-britannica, direttamente responsabile tanto verso gli elettori francesi che verso quelli inglesi.
Se la proposta fosse stata accolta, avremmo avuto senz’altro il primo nucleo della federazione europea. Con una piccola maggioranza – di 13 voti contro 10, tra i quali quello del presidente Reynaud – l’offerta fu respinta. Ma gli uomini della resistenza francese la considerano ancora valida ed aspettano che venga rinnovata non appena la Francia, liberata dai tedeschi e dal governo di Vichy, sarà in grado di manifestare la sua volontà.

Il discorso di Smuts

Ultimo indice importante dello stato d’animo attuale dell’opinione pubblica inglese è il discorso di Smuts.
Parlando il 20 maggio u.s. a Birmingham sulla ricostruzione del dopoguerra, il vecchio Maresciallo ha detto che egli metteva in primo piano il problema dell’Europa, e solo in secondo piano il problema di una nuova organizzazione mondiale per la sicurezza collettiva. Per questo secondo problema riteneva che la soluzione sarebbe stata “quasi inevitabilmente un’edizione riveduta e corretta della vecchia S.d.N.”. Ma per il problema europeo anch’egli ha prospettato come necessaria una più radicale soluzione.
“La questione se l’Europa si risolleverà – ha affermato – o se sarà condannata al tramonto, è per me la questione principale nell’attuale situazione del mondo. L’Europa è il cuore della terra; l’America non potrebbe sostituirla e l’Asia ancor meno. L’Europa è la culla spirituale dell’occidente. Non deve essere spezzettata e ridotta in atomi; non deve sprofondarsi in un miserabile caos di pezzi in frammenti. Dovrà invece raggiungere una nuova solida struttura come Stati Uniti o Commonwealth di Europa, una superba, giusta struttura che le consentirà di essere nuovamente la salvaguardia del diritto e della libertà, le quali sono appunto nate in Europa. Nell’adempimento di questo compito, la Gran Bretagna deve, grazie alla sua particolare posizione insulare, esercitare un ruolo dirigente”.
Per comprendere tutto il significato di queste parole, conviene metterle a confronto con quelle pronunciate, pochi mesi prima dallo stesso oratore, quando aveva presentato il futuro ordine mondiale esclusivamente come un problema di equilibrio tra le potenze della “Trinità” – l’Impero inglese, l’Unione Sovietica, la Repubblica Americana – invitando le piccole democrazie occidentali ad unirsi al Commonwealth britannico, per accrescerne il peso.
Quel discorso, che evidentemente era un “ballon d’essai” per saggiare la temperatura dell’opinione pubblica sollevò tali critiche e proteste, da parte degli uomini più rappresentativi delle varie tendenze progressiste in Inghilterra ed in tutti gli altri paesi, che è venuta ora questa sostanziale rettifica di posizione.
Per la prima volta un uomo di governo di una delle maggiori potenze alleate – e precisamente quegli che è da tutti considerato come l’alter ego del Primo Ministro – ha pronunciato le fatidiche parole “Stati Uniti d’Europa”, indicandoli quale possibile obbiettivo della guerra attuale.

Saper quel che vogliamo

Clemenceau diceva che la guerra è una cosa troppo seria per essere lasciata ai generali. Noi dobbiamo dire che la pace è una cosa troppo seria per essere lasciata ai diplomatici.
Fra la cessazione delle ostilità e la firma della pace definitiva è prevedibile che intercorra un periodo di sistemazione provvisoria molto più lungo di quello che si ebbe dopo la fine dell’altra guerra mondiale. Sarà questo il nostro momento; il momento in cui, se avremo idee chiare e decisa volontà, potremo dappertutto suscitare vaste correnti di opinione pubblica in favore dei nostri ideali, perché in tutti saranno ancor vivi i ricordi degli orrori e delle sofferenze patite, e la nostra voce suonerà come la voce della speranza, della fede in un mondo di pace, di benessere e di speranza.
Contro la miopia degli uomini di governo, contro l’egoismo delle classi privilegiate, i cui interessi fanno corpo con le organizzazioni statali nazionali, contro il misoneismo provinciale di coloro che ancora limitano il loro orizzonte ai confini della patria, dobbiamo fin d’ora parlare europeo, insegnare a tutti a considerare i particolari problemi nazionali come particolari aspetti del generale problema europeo, mobilitare le forze progressiste dei diversi paesi dietro la nostra bandiera per premere sui governanti delle potenze vincitrici e che tutti i provvedimenti transitori, dopo la cessazione delle ostilità, siano presi in funzione del nostro grande obbiettivo: la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Questi, se faran parte del trattato definitivo di pace, saranno la più grandiosa costruzione della nostra civiltà occidentale, l’inizio di tutta un’epoca di nuovo, più vero umanesimo.
Ma se non sapremo approfittare del periodo transitorio che si aprirà con l’armistizio, se daremo tempo agli uomini di dimenticare quel che è stata la guerra, se consentiremo alla materia che allora si presenterà fluida, fumante, di rassodarsi nei vecchi stampi degli stati nazionali, ricadremo dopo poco nel caos, che ci riporterà inevitabilmente, a breve distanza di tempo, in un’altra conflagrazione mondiale. E l’unificazione dell’Europa sarà allora all’opera, non della collaborazione dei popoli liberi, ma della ferrea imposizione di un Hitler più fortunato.

Maggio 1944

(11. fine)

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