Gli Stati Uniti d’Europa, Ernesto Rossi (1/2)

Gli Stati Uniti d'Europa

di Ernesto Rossi, maggio 1944.

INTRODUZIONE

Da qualche tempo tutti parlano, spesso a sproposito, di federalismo, di Unione e/o Federazione Europea; usano questi termini per dire tutto e il suo contrario. Ernesto Rossi è stato uno dei più grandi rappresentanti nel XX secolo dell’Italia laica, democratica, autenticamente antifascista e federalista europea. E’ appena il caso di ricordare che, confinato dal fascismo nell’isola di Ventotene, assieme ad Altiero Spinelli scrisse quel Manifesto di Ventotene che intendeva essere, ed è, il Manifesto per un’Europa libera e unita. Fondatore del Movimento Federalista Europeo (che avvenne in una riunione tenutasi il 27-28 agosto del 1943 a Milano,m nella casa del valdese Mario Alberto Rollier), è stato uno degli animatori del settimanale il Mondo, diretto da Mario Pannunzio ed esponente e militante del Partito Radicale fin dalla sua fondazione.
Per tornare al federalismo: per Rossi significava Stato federale sul modello degli Stati Uniti d’America o della Svizzera; l’unica struttura costituzionale in grado di consentire ai popoli di convivere pacificamente senza rinunciare all’autonomo sviluppo della loro individualità.
Gli Stati Uniti d’Europa, che sono il miglior scritto di Rossi sull’unità europea e costituisce un classico del pensiero federalista, vennero pubblicati nel giugno del 1944, con lo pseudonimo di Storno, dalla casa editrice “Nuove Edizioni Capolago”, di Lugano: il primo di una collana di saggi a cura del MFE. L’opuscolo è dedicato a Leone Ginzburg e a Eugenio Colorni, che avevano partecipato alla fondazione del Movimento Federalista Europeo, ed erano stati uccisi a Roma dai nazi-fascisti.
L’opuscolo significativamente si apre con un’epigrafe, da un radiodiscorso di Thomas Mann dai microfoni della NBC, del 29 gennaio 1943: “La vera Europa sarà creata da voi stessi, coll’aiuto delle potenze della libertà. Sarà una federazione di stati liberi, che avranno uguali diritti, potranno coltivare la loro indipendenza spirituale, le loro culture tradizionali, e al tempo stesso saranno soggetti ad una legge comune della ragione e della moralità; una federazione europea nel quadro del più vasto della cooperazione economica delle nazioni civili di tutto il mondo”.
Ogni giorno pubblicheremo un paragrafo de Gli Stati Uniti d’Europa. Una lettura (o rilettura) certamente utile e stimolante anche per i giorni dell’oggi.


GLI STATI UNITI D’EUROPA

La distruzione della nostra civiltà

Il problema dell’ordine internazionale, che dovrà instaurarsi al termine di questa guerra, è il problema più urgente, quello che deve avere una precedenza assoluta nella nostra considerazione, in quanto solo una sua razionale soluzione può dare un senso a tutte le soluzioni proposte per i particolari problemi politici, economici, spirituali che oggi si presentano nell’ambito dei singoli stati.
Se non si arriva a un assetto internazionale che metta fine alle guerre a ripetizione, coinvolgenti tutti i paesi del mondo, non è possibile salvare la nostra civiltà: siamo alla soglia di un nuovo medioevo.

La guerra totale

La guerra non è più un urto tra eserciti. E’ un urto tra popoli che nella lotta impegnano tutti i loro beni, tutte le loro vite. E’ la guerra totale, in cui ciascuna delle parti cerca, con i più efficienti strumenti forniti dalla scienza moderna, di distruggere il potenziale bellico ed abbattere il morale del nemico, come mezzo indiretto per annientarne l’esercito. E’ un turbine che sradica intere popolazioni dalle terre sulle quali risiedevano da secoli, per sbatterle senza più case, senza mezzi per vivere, a migliaia di chilometri di distanza; che massacra indifferentemente uomini, donne, vecchi, bambini; che non rispetta né ospedali, né cattedrali, né asili d’infanzia; che riduce a macerie fumanti biblioteche, musei, opere d’arte, i più preziosi patrimoni ereditati da innumerevoli generazioni passate.
E quel che la guerra distrugge nel campo dello spirito è anche più grave di quel che distrugge nel campo della materia. Discorsi, giornali, cinema, radio, fanno appello alle forze irrazionali dell’animo umano, per creare uno stato di follia collettiva che unifichi tutto il popolo in una sola volontà diretta a un unico fine: la vittoria, a qualunque costo, sopportando qualsiasi sacrificio. Non ci si deve neppure più domandare che cosa può significare la vittoria. Si vuole la vittoria per la vittoria; si vuole la distruzione del nemico; si vuole sopravvivere, anche se quel che di noi veramente sopravviverà non meriterebbe in alcun modo di essere difeso. Le falsificazioni, le menzogne sono sistematicamente adoperate come strumenti di guerra alla pari delle bombe e dei siluri. Chi ragiona, chi dubita, è un nemico della patria. Tutti i valori morali sono sconvolti: la violenza, il misconoscimento d’ogni regola di vita civile, l’odio che non ammette alcuna attenuante a favore dell’avversario, il conformismo e l’obbedienza cieca agli ordini che vengono dall’alto, sono lodati, premiati, divengono abiti spirituali in luogo del rispetto della vita umana, dell’ossequio alle leggi, della tolleranza, dello spirito critico e del senso di responsabilità individuale.

Conseguenze politiche della pace armata.

Ed anche quando la guerra non è in atto, la sua minaccia sovrasta come un incubo ed avvelena i pericoli di pace, determinandone le caratteristiche essenziali.
Le passioni antisociali, scatenate dalla guerra non si acquietano all’interno dei diversi paesi quand’essa viene a cessare: non più contenute entro i tradizionali istituti giuridici, ormai barcollanti o crollati, in modo disordinato si precipitqano da tutte le parti, riconducendo la lotta politica alle sue primordiali forme di lotta armata tra opposte fazioni.
Le libertà vivono solo in quanto il potere è decentrato in modo da consentire un reale interessamento dei cittadini alla cosa pubblica, e la vita politica si articola in numerosi corpi intermediari tra l’individuo e lo stato, nati spontaneamente per l’associazione di tutti coloro che hanno gli stessi interessi e gli stessi ideali. Ma un tale decentramento ed una tale articolazione contrastano con gli obbiettivi che i governi devono proporsi durante i periodi di pace armata. I maggiori risultati nella preparazione della guerra si raggiungono indirizzando a tal fine tutte le forze economiche, demografiche e spirituali, secondo un piano d’insieme, studiato ed attuato da un governo centrale che abbia il massimo di potere, ed il massimo di continuità: cioè in uno stato dispotico e totalitario. Quelli che sono i pregi della democrazia per l’organizzazione della vita pacifica ne diventano i maggiori difetti, quando ci si pone dal punto di vista dell’efficienza bellica. Nell’urto tra stati democratici e stati totalitari i primi – per la pubblicità della loro politica, per i frequenti mutamenti delle persone che tengono le leve di comando, per la lentezza con cui prendono le più importanti decisioni, per le opposizioni che devono superare agli aumenti di spese militari ed alla coscrizione obbligatoria – sono vasi di coccio sbattuti contro vasi di ferro. Anche i popoli che hanno una più lunga tradizione di autogoverno e sono più affezionati alle istituzioni liberali vengono inevitabilmente trascinati nel solco dei popoli che accettano un regime totalitario quando questo si dimostra militarmente più efficiente: se tardano a seguirne l’esempio, mettono in pericolo la loro stessa esistenza.
La soluzione del problema internazionale è dunque la premessa necessaria di qualsiasi riforma con cui si voglia dare una maggiore autonomia alla vita politica locale nell’interno dei singoli stati ed assicurare un migliore controllo dei cittadini sui governanti.

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Conseguenze economiche della pace armata.

In secondo luogo la pace armata indirizza le disponibilità economiche verso obbiettivi di distruzione, invece che verso obbiettivi di benessere, riduce il rendimento del lavoro, e non consente di elevare il tenore di vita delle classi meno abbienti con una ridistribuzione in loro favore della ricchezza sociale.
Una notevole parte della popolazione viene di continuo tenuta sotto le armi e vive parassitariamente proprio nell’età in cui potrebbe essere più produttiva. Ed un’altra parte viene impiegata a trasformare in caserme, in cannoni ed in altri strumenti di guerra le risorse materiali che potrebbero servire a edificare delle case, a coltivare del grano, ed in generale a soddisfare mille bisogni che ancora rimangono insoddisfatti. Con quel che è necessario alla costruzione di una sola grande corazzata moderna si potrebbe fornire gratuitamente l’alloggio ad una popolazione di una intera città di diverse decine di migliaia di abitanti.
Né queste, a tutti evidenti, sono le passività economiche maggiori. Ce ne sono molte altre che l’uomo della strada non vede, e pur rappresentano un gravissimo onere sull’economia nazionale. Le ferrovie, le autostrade, i porti, invece di essere costruiti per rispondere alle necessità dei traffici, vengono costruiti in funzione delle necessità militari. Si danno sussidi di centinaia di milioni ogni anno agli arsenali e alle compagnie di navigazione per avere la marina mercantile necessaria ai rifornimenti in caso di guerra. Invece di specializzarsi nei beni che potrebbe produrre a costo minore, conseguendo gli altri beni attraverso gli scambi, per godere gli enormi vantaggi della divisione del lavoro nel campo internazionale, ogni popolo vuole fare tutto da sé: sembra che più non apprezzi altri scambi al di fuori delle bombe che possono essere lanciate dagli aeroplani. Con dazi doganali, contingentamenti, divieti di importazione, premi di produzione, ogni collettività nazionale cerca raggiungere la più completa autarchia, per poter vivere e difendersi anche se viene tagliata completamente fuori dalle comunicazioni con le altre collettività. E la politica monetaria, la politica bancaria, la politica commerciale, vengono tutte dirette a questo medesimo fine.

Le spese militari sono alternative alle spese sociali. Quanto più aumentano quelle e tanto più devono necessariamente diminuire queste. I bilanci statali, anche se assorbono più di un quarto di reddito nazionale – impicciolito dagli sprechi e dalla riduzione di produttività causate dall’economia della pace armata – non hanno più margine per le assicurazioni sociali, per la costruzione di scuole e di case popolari, per la estensione dei servigi pubblici gratuiti a favore delle classi meno abbienti, quando la metà o i tre quarti delle entrate sono assorbite, - come ormai solitamente avviene – le spese militari e nel pagamento degli interessi dei debiti contratti a scopi militari.

Così la soluzione del problema internazionale si presenta quale antecedente necessario ad ogni seria riforma economica che si voglia attuare nell’ambito degli stati nazionali.

Conseguenze spirituali della pace armata.
Durante la pace armata tutti i valori spirituali sono distorti e falsati. La famiglia viene tenuta in grande considerazione solo perché è la macchina per fabbricare soldati. Con assegni e con imposte, con facilitazioni ed ostacoli nelle carriere, i giovani sono stimolati a sposarsi e a fare figlioli. Le donne feconde vengono pubblicamente premiate come alle mostre delle vaccine si premiano le migliori fattrici. I figli, poi, fin dalla più tenera età, sono il più possibile sottratti all’influenza dei genitori per meglio prepararli alle marcie, al maneggio delle armi, a “credere, obbedire, combattere”.

La scuola educa i giovani a sacrificare tutto – anche la propria coscienza – alla vicinità dello stato, a pensare che il proprio paese ha avuto sempre ed avrà sempre ragione, a disprezzare quel che gli uomini fanno al di là dei confini, a considerare la guerra come una meravigliosa romantica avventura.

Si trovan sacerdoti disposti a benedire gli strumenti di morte, a fare un altare sopra i cannoni, a interpretare le parole del Vangelo in modo che divengono incitamento all’odio ed alla strage.

L’intellettuale è giudicato un animale inferiore in confronto al pugilista che sa incassare i pugni più violenti, od al podista che resiste alle marcie con un peso in ispalla, La cultura umanistica diventa un lusso superfluo; anzi è tenuto in sospetto, perché rende gli individui più consapevoli della loro distinta personalità, e quindi più restii a lasciarsi intruppare e dirigere da coloro che portano i gradi gerarchici, e ad ubbidire ciecamente agli ordini scritti su carta intestata, con le firme ed i timbri prescritti dalle superiori autorità.

La cosiddetta “intellighenzia” risulta composta di propagandisti e di esperti, giacché non si domandano più opere di significato universale, né ricerche disinteressate dal vero, ma opere che esaltino i sentimenti nazionalistici e perfezionamenti tecnici che possano tradursi al più presto in armi efficienti.

Attraverso la pace armata la guerra così foggia anche gli animi in modo da renderli adatti ai propri bisogni. Nessuna riforma dell’educazione può essere seriamente iniziata per condurre gli uomini a dare alla personalità ed alla solidarietà umana un posto più alto nelle loro scale dei valori se non si riesce prima a stabilire un assetto internazionale che dia ai popoli una maggiore sicurezza di vita.

La guerra totale in atto significa strage, pestilenza, distruzione della nostra civiltà. La preparazione alla guerra ormai significa tirannide, miseria, imbarbarimento.

E’ per questo che la distinzione tra forze reazionarie e forze progressiste oggi non corre più lungo la linea che separa coloro che vogliono modificare in qualsiasi modo lo stato di cose esistente entro i confini dei singoli paesi, ma si pone fra coloro che ostacolano e coloro che favoriscono l’avvento di un nuovo ordine capace di ridurre i contrasti fra gli stati e di rendere più difficili, meno frequenti le guerre.

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2. L’ANARCHIA INTERNAZIONALE

La causa prima delle guerre è la mancanza di un ordine giuridico internazionale; cioè la mancanza di una legge che regoli i rapporti tra i diversi stati, di un giudice che, in base a questa legge, dia le sentenze in caso di contrasti, e di un gendarme che impedisca di farsi giustizia da sé, e sappia imporre il rispetto delle sentenze del giudice.

Giudizi errati sulle cause della guerra

Non ha alcun senso dire che le guerre sono una conseguenza del capitalismo, o della malvagia natura degli uomini, o dei sentimenti nazionalistici.
Certo il produttore di armi e di altri gruppi capitalistici possono avere interesse a che scoppi la guerra. Ma questo non significa che la loro volontà sia una determinazione sufficiente per farla scoppiare. All’interno di ciascuno stato i produttori di grano hanno interesse alla carestia, i costruttori di case hanno interesse a che divampino incendi che distruggano le città; ma non per questo si verifica la carestia o le nostre città sono distrutte dall’incendio. In ciascuno stato l’ordinamento giuridico provvede appunto gli argini che frenano e contengono le forze distruttrici pericolose per la vita collettiva. Le forze distrutte prevalgono nel campo internazionale solo perché in esso mancano analoghi argini giuridici.
E’ pure probabile che, in certe occasioni, dei gruppi capitalistici, ottenendo l’appoggio dei loro governi per conseguire la esclusività di alcuni mercati, l’appalto di lavori pubblici, la emissione di prestiti, ed altri privilegi, nelle colonie e nei paesi politicamente tanto deboli da subire l’influenza di potenze straniere, possano, senza volere la guerra, spingere ad essa perché fan nascere attriti e alimentano pericolosi contrasti fra gli stati. Ma anche questo avviene solo perché manca un ordine giuridico internazionale. Se il capitalista di Berlino può fare qualcosa per spingere la Germania alla guerra contro la Gran Bretagna, il capitalista di Filadelfia non può fare niente per spingere la Pensilvania alla guerra contro la Virginia, perché questi secondi stati, a differenza dei primi, non hanno dogane ed eserciti propri e sono entrambi sottoposti ad una autorità superiore – l’autorità federale – che ha una forza sufficiente per imporre il rispetto della legge in tutto il loro territorio.
Né il socialismo, per se stesso, sarebbe un rimedio adeguato alle guerre. Uno stato socialista potrebbe tendere – come gli stati capitalistici – a sfruttare uno stato più debole. Fra società socialiste, come fra società borghesi, potrebbero svilupparsi contrasti di razze, contrasti ideologici sul diverso modo di intendere e di praticare il socialismo, e contrasti economici, derivanti da differenza di ricchezza, dal possesso di passaggi obbligati delle correnti commerciali, o dalla esclusiva disponibilità di certe materie prime. I contrasti che già si verificavano nelle file proletarie, fra bianchi e negri, fra laburisti e marxisti, fra operai specializzati e non specializzati, sono, a questo proposito, molto istruttivi.
E’ pure certo che se tutti gli uomini fossero animati nei loro reciproci rapporti da sentimenti di fraternità evangelica non ci sarebbe bisogno di alcuna forma di coazione legale. L’ordinamento giuridico è una necessità, tanto nei rapporti fra gli individui, quando nei rapporti fra gli stati, appunto perché gli uomini sono quello che sono.
D’altra parte i sentimenti nazionalistici anti-sociali non possono considerarsi caratteristiche psichiche innate. Sono frutto della politica: come la politica li fa nascere, così può farli sparire. La lingua, la razza, la religione, i costumi diversi, non impediscono la pacifica convivenza dei cantoni svizzeri, mentre la comunanza di lingua, di razza, di religione, di costumi, sembra rendano anche più acri i contrasti fra gli abitanti della Bolivia e quelli del Paraguay. Se i cantoni non si fossero uniti in una sola nazione continuerebbero ad odiarsi e a combattersi fra loro come hanno fatto per secoli. Se la Bolivia e il Paraguay, svincolati dalla madre patria, avessero conservata la vecchia unità, nessuno avrebbe mai sentito parlare di un patriottismo boliviano e di un patriottismo paraguayano, in fiero contrasto fra loro.

Il diritto internazionale

Oggi ogni stato afferma, nel modo più intransigente, la sua assoluta sovranità; non ammette alcun limite al suo volere; pretende di essere in ogni caso il solo giudice del suo diritto. E per difendere il suo diritto cerca di raggiungere una forza maggiore degli eventuali suoi nemici, armandosi ed alleandosi con altri stati. La sicurezza conseguita da uno stato corrisponde alla insicurezza, all’accettazione di una condizione d’inferiorità, da parte degli altri.
Il cosiddetto “diritto internazionale” in realtà non è un diritto, perché afferma solo delle norme che le parti osservano finché desiderano rispettarle. In tutti gli accordi internazionali è infatti sottintesa la clausola rebus sic stantibus, per la quale i governi in pratica si ritengono vincolati solo nei limiti in cui l’adempimento degli obblighi, che dagli accordi discendono, non sia, a loro insindacabile giudizio, in contrasto con l’interesse del loro paese.
La più grandiosa e grottesca manifestazione della completa vacuità del diritto internazionale è stata, nel 1929, il patto Kellog, che poneva la guerra “fuori legge”. Quasi tutti i governi del mondo – compresi quelli della Germania, dell’Italia e del Giappone – si affrettarono a dare pubblica prova delle loro pacifiche intenzioni firmando la morte legale della guerra. Stupendi discorsi, scambio di telegrammi fra i capi degli stati, brindisi, felicitazioni, articoli ditirambici sui grandi giornali. Ma di buone intenzioni è lastricato l’inferno. Il patto Kellog, non prevedendo nessuna efficace sanzione, lasciò le cose come stavano prima. La guerra, tutta occupata a massacrare e a distruggere, neppure si accorse di essere stata messa “fuori legge” da tante brave persone.

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L’arbitrato e il disarmo

Fino a quando gli stati conserveranno la loro assoluta sovranità è vano sperare che l’arbitrato possa por fine alle guerre. Negli accordi per deferire a corti arbitrari la risoluzione degli eventuali conflitti internazionali, le parti contraenti hanno in generale fatto eccezione per le questioni riguardanti il loro onore ed i loro vitali interessi: si sono così riservate il diritto di sottrarre al diritto arbitrale tutto quel che credevano. Nel 1903 gli stati dell’America centrale si provarono a concludere un accordo diverso. Stabilirono di dare ad una corte permanente una competenza obbligatoria generale. Ma l’accordo durò solo fino al momento in cui venne messo alla prova: al primo grave conflitto, nel 1917, lo stato condannato rifiutò di sottomettersi alla sentenza e tutto il sistema crollò. Non poteva andare altrimenti.
Fino a quando nei rapporti internazionali il diritto continuerà ad essere la conseguenza della forza, ancora più vano è sperare che gli stati possano accordarsi in una seria politica di disarmo. Nelle conferenze che si sono riunite a ripetizione nel ventennio fra le due guerre, ed hanno riempito ben 14.000 pagine di rapporti, gli esperti sono andati alla inutile ricerca di criteri che, assicurando la riduzione parallela degli armamenti, lasciassero inalterato il rapporto di forze esistente fra i diversi paesi. La vanità di questa ricerca risulta evidente a chiunque rifletta che ogni equivalenza fra i diversi mezzi offensivi e difensivi è necessariamente arbitraria, perché son mezzi che danno risultati del tutto diversi a seconda delle circostanze in cui vengono impiegati. Ma anche se gli esperti fossero riusciti a superare tale difficoltà, i diplomatici non avrebbero mai potuto raggiungere l’accordo, perché gli stati militarmente più deboli, ma capaci di ulteriore espansione, non avrebbero consentito al consolidamento del rapporto di forze esistente, e nessuno stato era disposto ad accettare i controlli che sarebbero stati necessari per assicurare l’osservanza degli impegni. Le conferenze si riducevano quindi a ridicoli tornei, in cui ogni stato cercava impegnare gli altri a porre dei limiti agli armamenti in cui potevano avere un’efficienza relativamente maggiore, e di restare per suo conto libero da vincoli corrispondenti.

Pretendere di assicurare la pace fra i popoli con accordi per l’arbitrato e il disarmo è come pretendere di assicurare la pace fra gli individui, all’interno di ciascun stato, senza codici, senza giudici, senza carcerieri, richiedendo solo ad ogni cittadino di firmare un foglio di carta bollata, con la promessa solenne di non adoperare mai bastoni, coltelli e pistole per vendicarsi o per imporre agli altri il proprio volere, e di liquidare all’amichevole tutte le eventuali controversie.

La risoluzione del problema deve essere la stessa nel campo internazionale qual è nell’ambito dei singoli stati: occorre trasferire il potere dai litiganti alla legge, e predisporre una forza a sostegno della legge tanto grande che nessuno possa sperare di resisterle impunemente.

3. IL FALLIMENTO DELLA SOCIETA’ DELLE NAZIONI

Alla fine dell’altra guerra vi fu un serio tentativo di assicurare la pace nel mondo. Questo tentativo ha fatto completo fallimento. Perché?

Le responsabilità dell’America

I. Perché – dicono alcuni – gli Stati Uniti non hanno voluto entrare nella S.d.N. Mancando gli Stati Uniti, la S.d.N. non ha avuto il prestigio e la forza sufficiente per mantenere l’ordine internazionale.

In verità, la partecipazione degli Stati Uniti non avrebbe potuto migliorare di molto la S.d.N. Gli Stati Uniti, conservando, come gli altri membri della S.d.N. la loro assoluta sovranità, avrebbero cercato di adoprare anch’essi l’istituzione ginevrina per il raggiungimento dei loro obiettivi di politica nazionale.

Quando il Giappone invase la Manciuria, la Francia e l’Inghilterra impedirono che la questione venisse portata davanti all’assemblea della S.d.N., nonostante risultasse a tutti evidente l’aggressione, perché non volevano correre il rischio di perdere i loro possedimenti in Oriente. Quando si profilò la minaccia di una aggressione dell’Abissinia da parte dell’Italia, il governo di Laval profittò della buona occasione per negoziare degli accordi a vantaggio della Francia, promettendo di non consentire altro che sanzioni collettive puramente simboliche, da cui lo stato aggressore non avrebbe avuto alcun danno.

Se ci fossero stati dei rappresentanti americani nel consiglio della S.d.N. avrebbero fatto anch’essi degli eloquenti discorsi sulla “sicurezza indivisibile”, come i loro colleghi inglesi e francesi, ma, in pratica, quando si fosse trattato di prendere delle decisioni, avrebbero guardato solo ai particolari interessi degli Stati Uniti, appoggiando – a seconda della convenienza – l’uno o l’altro dei diversi blocchi in contrasto, senza tenere alcun conto del diritto e degli impregni presi con la firma del “covenant”.

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La colpa degli uomini di governo

II. Ecco – affermano altri – è proprio qui la causa di tutti i mali. La S.d.N. non ha potuto funzionare efficacemente a tutela della pace perché i governanti non hanno voluto farla funzionare; non hanno tenuto fede alla parola data; non si sono curati degli interessi comuni. Sono gli uomini che hanno fatto fallimento, non la S.d.N.
Parlano così le anime candide, i moralisti che vorrebbero costruire l’edificio dell’ordine internazionale sulle fondamenta di quel che dovrebbe essere, invece che sulle fondamenta di quel che realmente è. Finché gli stati manterranno la loro distinta individualità,il “sacro egoismo” continuerà ad essere la regola di condotta degli uomini di governo, e qualsiasi trattato, qualsiasi patto, sarà da loro considerato uno “chiffon de papier” tutte le volte che verrà a trovarsi in contrasto con gli interessi nazionali. Anche se animati dai più alti principi morali, anche se mossi dalle migliori intenzioni pacifiste, coloro che assumono la responsabilità di governo diventano necessariamente i rappresentanti degli interessi che si sono consolidati nell’interno degli stati nazionali, e debbono porsi come primo obiettivo della loro politica quello della sicurezza del loro paese,, cercando di renderne massima la potenza militare. I governanti che in uno stato particolare assumessero come direttive della loro politica un punto di vista universale, anche se riuscissero a mantenersi al potere, mancherebbero alla fiducia in loro riposta dai concittadini; nel gioco dei contrasti internazionali diverrebbero lo zimbello dei governanti più spregiudicati degli altri stati, e sarebbero, con giusta ragione, accusati di aver preparato, per amore di astratte ideologie, il concreto asservimento del loro paese agli stranieri.
Così come era costituita la S.d.N. , mancando un governo superiore che garantisse veramente l’ordine internazionale, era naturale che ogni delegato cercasse di risolvere i diversi problemi, non nel modo più conveniente per l’intera collettività, ma in modo da modificare il rapporto delle forze esistente nel senso più favorevole al proprio paese. Era perfino nella logica delle cose che, nella S.d.N., ogni stato fosse disposto a rinunciare ad un beneficio, ed anche a subire un danno positivo, se prevedeva che, in conseguenza, sarebbero stati costretti a rinunciare ad un beneficio, od a subire un danno maggiore, altri stati che avrebbero potuto divenire suoi avversari in futuro.

La regola dell’unanimità

III. Appunto perché non sempre l’interesse collettivo coincide con l’interesse dei singoli partecipanti, la regola dell’unanimità ed il diritto di recesso hanno portato al fallimento della S.d.N. – sostengono altri.
Chi ragiona in tal modo non ha chiare in mente quelle che sono le premesse necessarie della regola della maggioranza. Se nella S.d.N. il voto di uno stato avesse avuto egual valore a quello di un qualsiasi altro stato, una coalizione di piccoli paesi avrebbe potuto imporre la propria volontà alle grandi potenze, e così utilizzarne le forze armate e le risorse economiche a proprio vantaggio. Cinque milioni di abitanti, ripartiti in cinque stati, se si fossero messi d’accordo, avrebbero avuto un peso nelle decisioni dieci volte maggiore di cinquanta milioni di abitanti, raccolti in un solo stato. Un tale ordinamento, evidentemente ingiusto e antidemocratico, non avrebbe mai potuto essere ammesso dalle grandi potenze. D’altra parte, l’attribuzione ad ogni stato di un numero di voti proporzionale al numero dei suoi abitanti non avrebbe trovato il consenso, né di quei maggiori stati che contano più sul loro potenziale industriale e sulla loro capacità di organizzazione che sulla loro forza demografica, né degli stati minori che avrebbero temuto di perdere la loro individualità e di diventare delle semplici pedine nel gioco degli altri.

E’ vero che la regola dell’unanimità, quand’anche non votava di per se stessa la S.d.N. alla completa impotenza, rendeva necessaria una procedura così lenta che impediva ogni intervento tempestivo in caso di conflitti internazionali. Pure essa era una conseguenza inderogabile del principio della sovranità, che nel “covenant” si era voluto salvaguardare nel modo più assoluto, e solo la sicurezza che, per esso, nessun stato membro avrebbe mai potuto essere costretto a fare quello che non voleva, aveva reso possibile l’accettazione, da parte dei piccoli stati, della posizione preminente delle grandi potenze nel consiglio, espediente col quale, in certo qual modo, si era voluto dare un riconoscimento alla situazione di fatto esistente nel rapporto delle forze.
E dallo stesso principio della sovranità di tutti gli stati membri discendeva pure, come corollario, il diritto di recesso della S.d.N.: diritto per cui, in caso di conflitti internazionali, ogni parte accettava di sottomettersi al giudizio della collettività solo se riteneva di averne vantaggio. Altrimenti, dava un preavviso e se ne andava.

Una società di stati sovrani non può essere organizzata democraticamente, e quindi non può essere una vera società; ma solo una lega, un’alleanza fra stati, che svolgono un’azione comune nelle questioni in cui sono d’accordo.

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La mancanza di una forza armata

IV. C’è infine chi ritiene che il fallimento della S.d.N. sia imputabile ad un difetto secondario, non essenziale, della sua struttura, e cioè al fatto che non disponeva di una forza propria per esercitare la polizia internazionale.
L’espressione “polizia internazionale”, quando viene adoperata in questo senso, è assai equivoca e porta facilmente fuori strada. Le operazioni di polizia sono esercitate esclusivamente nei confronti di singoli individui violatori della legge, e richiedono l’impiego di forze relativamente piccole, rappresentanti cioè di una piccola parte della popolazione e della ricchezza del paese, perché, in generale, i criminali non ottengono il consenso e l’appoggio dei loro concittadini.
Mentre un governo federale può far rispettare la legge con semplici operazioni di polizia, in quanto si trova davanti esclusivamente degli individui, la S.d.N. doveva far rispettare la legge degli stati, e per questo occorrevano non delle forze di polizia, ma delle operazioni militari, richiedenti l’impiego di forze molto ingenti, perché dirette contro tutti gli abitanti di un intero paese, tanto dei fautori come degli oppositori alla politica del loro governo. In tal modo si suscitava la resistenza di tutta la popolazione che si spingeva a far blocco col proprio governo, qualunque fosse la sua responsabilità.
Le operazioni militari, anche se potessero venire attuate, risultando tanto più costose ed avendo tanta minore probabilità di successo quanto più potente è lo stato che viola la legge, molto facilmente verrebbero decise per imporre il rispetto dell’ordine giuridico alle piccole potenze, non mai a quelle maggiori. Così il mantenimento dell’ordine internazionale sarebbe solo la ipocrita veste per mascherare l’egemonia degli stati più forti.
Inoltre voler costituire una forza armata a disposizione di una S.d.N. di cui faccian parte degli stati sovrani, è voler mettere il carro avanti ai buoi. Poiché le forze armate sono il mezzo per l’affermazione concreta della sovranità, nessun stato vorrà consentire alla creazione di un esercito internazionale capace di imporgli una volontà estranea alla sua.
E quand’anche si volessero dare, per assurdo, superate tutte queste difficoltà come si potrebbe praticamente organizzare un tale esercito? La nomina del comandante in capo, l’obbedienza dei soldati nei casi in cui dovessero applicare delle misure coattive contro i connazionali, la preparazione dei piani di guerra, sono tutte cose inconcepibili se non esiste un vero governo unitario, incaricato della difesa, se i soldati non hanno una cittadinanza superstatale che si traduca in un senso di fedeltà ad un tale governo, e, infine, se non viene eliminata ogni possibilità di guerra tra gli stati associati.
La S.d.N. ha fatto fallimento per le cause medesime per le quali fallì la Confederazione americana nel 1781:
“La verità essenziale – scriveva Hamilton, spiegando sul Federalist tali ragioni – è che una sovranità su stati sovrani, un governo sopra dei governi, una legislazione per le collettività invece che per gli individui, com’è un assurdo in teoria, così in pratica è sovvertitrice dell’ordine e dei fini della politica civile, in quanto mette la violenza al posto della legge, ossia la coazione distruttiva della spada al posto della pacifica e salutare coazione della magistratura”.
Il fallimento della Confederazione americana del 1781 – per la intelligenza e la capacità di uomini quali Washington, Hamilton, Franklin, Madison, che tutto il mondo ancor oggi onora – portò alla Costituzione federale del 1789, sotto l’egida della quale gli Stati Uniti d’America hanno raggiunto la loro presente grandezza e prosperità.

Spetta ora a noi far nascere, dal fallimento della S.d.N., la costituzione federale degli Stati Uniti d’Europa.

4. LA SOLUZIONE FEDERALISTA

Quando, per qualsiasi ragione, le guerre sono divenute endemiche tra i popoli, per passare dal regno della forza al regno del diritto, anche nei rapporti internazionali, l’unico rimedio possibile è quello dell’organizzazione unitaria che sottoponga i popoli stessi ad una sola sovranità.

Unità imperiale e unità federale

Tale organizzazione può prendere diverse forme.
Escludiamo senz’altro dalla nostra considerazione, perché non corrisponde all’argomento che ora ci interessa, la forma accentrata, con la quale diversi popoli si fondono in un unico stato, che provvede all’amministrazione di tutta la cosa pubblica con un solo governo e con una sola cittadinanza che dà a tutti eguali diritti. Questa forma può avere successo e consentire lo sviluppo di libere istituzioni – come è avvenuto in Italia nel primo cinquantennio dopo la sua unificazione – solo se abbraccia popoli che hanno una grande omogeneità etnica, una sufficiente somiglianza spirituale e di tenore di vita, un fondo di tradizioni, di letteratura, di religione comune.
1). Le forme di organizzazione che qui ci interessano sono:
Quella imperialista, che assoggetta tutti i popoli al governo di un unico popolo militarmente più forte;
2). Quella federalista, che forma un nuovo stato, al quale i singoli stati membri trasferiscono quegli attributi della loro sovranità che sono indispensabili per la gestione in comune di tutti gli affari di interesse generale, conservando i rimanenti poteri per risolvere indipendentemente i loro particolari problemi.
Entrambe queste forme di organizzazione possono portare alla eliminazione della guerra su tutto il territorio in cui si estendono. Ma la prima incontra la resistenza di tutti i popoli consapevoli del valore della propria autonomia, e – quand’anche, col ferro e col fuoco, riesca ad unificare i popoli più diversi in una comune servitù – fa perdere il contributo che ciascuno di essi avrebbe potuto dare al progresso dell’umanità con l’apporto del suo genio e della sua storia. La seconda consente ai popoli più differenti per razza, per religione, per linguaggio, di convivere pacificamente – così come vediamo in Isvizzera – senza rinunciare all’autonomo sviluppo della loro individualità. E’ la soluzione liberale per eccellenza: quella a cui tutti gli uomini di tendenze progressiste, che si pongono il problema di come uscire dall’attuale marasma, eliminando l’anarchia internazionale, per assicurare ai diversi popoli le condizioni necessarie alla vita delle loro libertà.

Caratteristiche dell’organizzazione federale

Le unità-base dell’organizzazione federale sono gli individui, non gli stati. Il governo federale è composto, non di delegati dei governi dei diversi stati, responsabili verso tali governi, ma di rappresentanti scelti da tutti coloro che, oltre ad essere cittadini degli stati membri, sono cittadini della federazione; e verso tali cittadini essi sono responsabili.
In conseguenza la costituzione mette sotto la salvaguardia federale quei diritti che sono la premessa indispensabile per l’esercizio delle libertà politiche. Non è concepibile uno stato membro di una federazione con un regime totalitario, che impedisca la vita dei partiti di opposizione ed abolisca la libertà di stampa e di associazione; i cittadini altrimenti non sarebbero in grado di eleggere i loro rappresentanti al governo federale.
Poiché la federazione è un vero stato, non una semplice alleanza fra stati sovrani, la sua costituzione associa in modo irrevocabile tutti i popoli che entrano a farne parte; nessun popolo ha il diritto di recedere dalla associazione per riacquistare la sua completa indipendenza sotto il suo particolare governo.
Il fatto che le unità-base della federazione sono gli individui, e non gli stati, consente l’applicazione del principio democratico nelle deliberazioni delle assemblee legislative, e porta le forze in contrasto a schierarsi a seconda dell’indirizzo politico, invece che a seconda dell’appartenenza ai diversi stati nazionali. Le campagne elettorali per le cariche federali trascendono i limiti degli stati ed i rappresentanti dei medesimi partiti, nelle assemblee legislative, votano insieme indipendentemente dalla loro cittadinanza nazionale; il socialista appoggia il socialista di un altro stato membro della federazione, contro il conservatore suo connazionale, ed il conservatore è appoggiato dai conservatori degli altri stati contro il socialista suo connazionale. E’ questo il più saldo fondamento della unificazione, in quanto la comunanza di sentimenti e di interessi nei partiti, che estendono la loro azione su tutto il territorio federale, rappresenta il miglior rimedio contro le prevenzioni, gli odii e le borie nazionalistiche.
Nei limiti della sua competenza, la federazione ha una giurisdizione diretta su tutti i cittadini. E’ questa la prima ragione del grande successo della costituzione americana del 1789. Quando il governo centrale doveva servirsi degli stati come intermediari per raccogliere le imposte, per arruolare i soldati, per fare eseguire le sentenze dei giudici, la sua efficienza dipendeva dal buon volere dei singoli governi, e le loro gelosie, i loro egoismi, avevano portato la confederazione sull’orlo del disastro, nonostante il grande valore e l’enorme prestigio del suo capo. “Influence is not government” – lamentava Washington, constatando che il sistema gli impediva di ottenere i soldati, i rifornimenti, i denari, che i delegati degli stati avevano pur consentito per la lotta comune contro l’Inghilterra. E, ristabilita la pace, le finanze andavano a rotoli, scoppiavano rivolte da tutte le parti, non si riusciva a pagare né i debiti, né le pensioni ai soldati, le potenze straniere non rispettavano gli accordi conclusi e trattavano direttamente con i singoli stati. L’anarchia già faceva nascere il pericolo di una dittatura, della instaurazione di una tirannide. Solo la creazione di organi alle dirette dipendenze del governo centrale per imporre il rispetto della legge nell’ambito dei diversi stati sventò tale pericolo e dette veramente corpo all’unità americana.

I compiti della federazione

La federazione nasce principalmente per assolvere a questi tre compiti: le relazioni con l’estero, la difesa del territorio e la tutela della pace nell’interno della federazione. Deve quindi avere.
1). un governo, al quale sia riservata la politica estera;
2). un esercito, agli ordini di tale governo, in sostituzione degli eserciti nazionali;
3). un tribunale supremo, che giudichi tutte le questioni relative all’interpretazione della costituzione federale e risolva le eventuali controversie tra gli stati membri, e fra gli stati stessi e la federazione.

Non è qui il caso di esaminare i problemi costituzionali relativi alla creazione di un ordinamento federale: sistema della camera unica, o sistema bicamerale; potere esecutivo composto di un gabinetto scelto dalla camera o di un presidente scelto direttamente dai cittadini; forma di rappresentanza; modo di nomina della magistratura federale; procedura per le modificazioni costituzionali, ecc. Né è possibile determinare a priori quali compiti, oltre quei tre fondamentali, sia conveniente affidare alla federazione. La divisione tra i poteri dello stato federale e i poteri degli stati membri risulta necessariamente diversa a seconda delle circostanze politiche in cui viene a formarsi, a seconda dell’ampiezza dell’area sulla quale si estende, a seconda della maggiore o minore omogeneità dei diversi popoli che la compongono, del loro spirito di indipendenza, e di molti altri fattori che non sono prevedibili in termini generali. Possiamo però osservare che lo stato federale non sarebbe in grado di assolvere ai tre compiti sopra elencati se non avesse almeno il controllo sul commercio internazionale, sui movimenti migratori, sulla moneta e sull’amministrazione delle colonie; mentre altri compiti – quali la pianificazione delle grandi vie di comunicazione, la distribuzione dell’energia elettrica, la legislazione commerciale, la lotta contro i monopoli, ed una parte della legislazione sociale – potrebbero essere assolti assai meglio da organi federali che dagli organi dei singoli stati.
L’unificazione economica dà vigore all’unificazione politica, I vincoli federali si consolidano tanto più facilmente quanto più sono sostenuti da interessi economici che ne traggono vantaggio: creando fin dalle origini dello stato federale un complesso di tali interessi gli si permette di affondare subito le radici nel terreno più saldo, in modo da renderlo poi capace di resistere all’infuriare delle tempeste.

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