"L’anticlericalismo religioso di Pannella", Angiolo Bandinelli

articolo di Angiolo Bandinelli pubblicato da "L´Opinione" dei giorni 7 e 8 settembre 2001

Nel maggio del 1967, in una sala periferica di Bologna concessa da una qualche organizzazione democratica o sindacale cittadina, si apriva il III Congresso del Partito Radicale. La numerazione, a sottolineare la continuità ideale con i programmi e le battaglie promosse dal partito dei Pannunzio, dei Carandini, dei Rossi, dei Villabruna e Cattani, faceva seguito a quella dei suoi precedenti congressi, quello del 1958 e quello del 1961. Ma era il primo della gestione pannelliana e dei suoi amici, che avevano osato risollevare e brandire il berretto frigio della Marianna disegnato da Maccari, abbandonato nella polvere dall’incredulità e dalla sfiducia dalle precedenti sue classi dirigenti.

Un paio di ore prima dell’inizio dei lavori, in un modesto albergo non lontano dalla sala, Angiolo Bandinelli e Marco Pannella, nelle rispettive stanze, si stavano preparando all’appuntamento. Marco bussò ad Angiolo che era, anche lui, pronto ad uscire. C’era nell’aria un po’ di emozione, ovviamente, e Angiolo disse a Marco, chiudendosi alle spalle la porta della stanza: “Beh, adesso vamos a ver matar al toro”. Lo spagnolo era, probabilmente, sgangherato, il senso però era chiaro. Pannella gli rispose: “E che diavolo, niente pessimismo”, o qualcosa di simile.

Partecipò al congresso una ottantina di trentenni, quasi tutti reduci del primo partito ma già caricati dal lungo e ormai consolidato successo della campagna divorzista e della Lega Italiana per il Divorzio, oltreché dalle altre efficaci iniziative e manifestazioni politiche svoltesi a Roma ma anche in altre città. Il dibattito però si manifestò incerto, nessuno poteva prevedere quale potesse essere la mozione finale, il documento al quale, secondo il nuovo statuto, gli iscritti sarebbero stati politicamente legati per l’anno successivo. Tra i delegati, alcuni venivano da Milano, esponenti di un gruppo che poteva vantarsi di essere il secondo per consistenza, dopo quello romano. Spiccava tra di loro Carlo Oliva, un insegnante liceale assai colto, intelligente, un po’ disincantato e forse fragile. I milanesi erano stati molto attenti al dibattito politico montante nella società civile, un dibattito che di lì a poco sarebbe sfociato nel movimento sessantottino. Fecero discorsi consonanti, infarciti di sinistrismo ideologico.

La sera del penultimo giorno, Pannella convocò qualcuno dei più autorevoli congressisti, tra cui Gianfranco Spadaccia e, appunto, Carlo Oliva. Era sceso dalla stanza dell’albergo con in mano un foglietto su cui aveva battuto a macchina una quindicina di righe, corrette e ricorrette. Disse ai convocati, che lo aspettavano: “Ho provato a buttare giù una possibile mozione. Non mi sono venute che queste poche righe. Vedete voi di andare avanti. Si può lavorare tutta la notte, basta che il documento sia pronto per domani, alla riapertura dei lavori”.

Il gruppetto si chiuse in una stanza con un tavolo, poche sedie e una specie di divano, e si mise al lavoro. Discussero e ridiscussero, provarono a buttar giù qualcosa di adeguato, ma non procedevano di un passo. Per riconfortarsi, Oliva aveva portato con sé una bottiglia di whisky cui attingeva di quando in quando, generosamente. Le ore scorrevano, qualcuno si appisolò sullo scomodo divano, il whisky calava nella bottiglia. Oliva provava a balbettare qualcosa ma Spadaccia, ad ogni proposta, idea, suggerimento, sollevava dubbi di ogni genere. Senza puntiglio, ma implacabilmente.

Spuntò l’alba, arrivò il giorno, sulla macchina da scrivere c’erano solo le dieci righe buttate giù da Pannella, con le loro intatte cancellature e riscritture. Quando giunse l’ora dell’inizio dei lavori congressuali, Oliva era rotolato lui sul divano, ma la mozione non era progredita di un millimetro. Al voto giunsero le dieci righe pannelliane, che superarono ampiamente il voto congressuale. Fu quello il primo documento ufficiale del nuovo radicalismo. Esattamente quello che Pannella desiderava e aveva ottenuto, grazie ad una abile, un po’ cinica regia, e avendo come protagonista ed esecutore Gianfranco Spadaccia.

La mozione invitava “tutti i cittadini democratici a sostenere nel paese la politica di superamento del nazionalismo, l’anticlericalismo, l’antimilitarismo, la lotta per i diritti civili…fondamentali e concreti strumenti per una effettiva trasformazione della società e dello Stato”… Solo perseguendo questi obiettivi, continuava il documento, “sarà possibile favorire l’unità e il rinnovamento dell’intera sinistra italiana…” Si affacciavano nel dibattito politico e civile due termini assolutamente inediti, il federalismo e i diritti civili; ma anche, del tutto inaspettati, vi riprendevano posto due altri termini inconsueti, antimilitarismo e anticlericalismo. Suonavano inconsueti perché divenuti, da almeno mezzo secolo, desueti.

Ed erano desueti, sogghignava Pannella, perché “vieti”, vietati, cassati dall’agenda e dall’attualità per congiunta volontà di destre e di sinistre. Avrebbero, da allora, fatto strada. Dal nuovo antimilitarismo sarebbero nate le battaglie per l’obiezione di coscienza e per il disarmo unilaterale, in un confronto difficilissimo col pacifismo di osservanza khrusceviana allora (ma non solo allora) in auge a sinistra. Il nuovo anticlericalismo avrebbe impostato quelle contro il Concordato, per il divorzio, e più tardi per l’aborto. Imprese enormi e quasi impensabili, dato il clima del paese. Ma di schietto, antico, forte sapore liberale.

I radicali pannelliani l’anticlericalismo lo avevano voluto fortissimamente fin da quando, come sparuta minoranza, avevano presentato al secondo congresso del partito una mozione seccamente divorzista. La mozione era stata respinta, la dirigenza, che pure usciva dalle colonne del “Mondo”, non credeva fosse né utile né possibile una battaglia su un tema avversato dal mondo cattolico ma anche schivato dalle sinistre, fin dagli inizi del secolo. Non che i lettori e scrittori del settimanale di Pannunzio fossero teneri verso il papa e il cattolicesimo.

Cavourriani integrali, erano rigorosissimi nell’interpretare la cultura laica nella accezione latamente europea, con un continuo e devoto richiamo all’insegnamento crociano. Per la maggior parte, più che altro, erano laicisti, gente di mondo che non andava in chiesa, professava un disinvolto e fatuo scetticismo se non addirittura teneva a dichiararsi atea. Erano, insomma, dei borghesi tipici. Il che equivale a dire che, politicamente, non avrebbero mai fatto professione di anticlericalismo, un termine che ai loro occhi evocava un mostro ancora più detestabile della Chiesa cattolica, l’odiato positivismo ottocentesco, così eccessivo, grottesco, popolaresco, scurrile e dunque impresentabile, contro la cui pedestre filosofia don Benedetto, guida spirituale di Pannunzio o di Carandini, aveva condotto battaglie memorabili.

L’unico che potesse e tenesse a definirsi anticlericale, anticlericale positivista, per nulla crociano, era Ernesto Rossi, il quale anzi alla problematica antivaticana, anticuriale, antireligiosa, e dunque anticlericale veniva dedicando sul “Mondo” pagine di eccezionale verve e forza, dando vita ad un giornalismo e saggismo degni di restare (se capito e difeso da critici meno perbenisti ed “emunctae naris” di quelli che andavano per la maggiore) nelle antologie della letteratura italiana accanto a quelle di un Galileo o di un Baretti (per dire), quali esempi di scrittura scientifica (e, insieme, satirica) di altissima qualità. Ma Ernesto, “poverino, è tanto bravo ma di politica non capisce nulla”, si sussurrava con qualche compatimento nelle belle sale al terzo piano di Piazza Montecitorio, dove regina era la signorina Nina Ruffini.

Ora, grazie a Pannella e a un po’ di whisky, l’anticlericalismo tornava alla ribalta della politica. Sconfiggeva le tentazioni marxiste e marxiane, l’economicismo e quante altre suggestioni erano penetrate anche tra le fila radicali dalla cultura di sinistra circostante, che all’anticlericalismo militante preferiva la complicata ma irrisolubile tematica del “dialogo con i cattolici”, intessuta dai Lombardo-Radice, gli Ingrao, i Rodano. Era, sì, anticlericalismo ma, diciamolo subito, non quello nobilissimamente professato da Ernesto Rossi. Non lo era, almeno quanto Pannella non era positivista.

Nel nostro ricordo, non ci pare proprio che Pannella abbia mai pronunciato, o declinato in qualche modo o sotto un qualche pretesto quel grido, “Ecrasez l’infame” che era alla base della Kulturkampf bismarckiana o del laicismo borghese francese, quello di cui Flaubert, scrutando tra le pieghe della redingote dei suoi esponenti, ha lasciato la caricatura immortale nelle figure di Bouvard e Pecuchet, o di Monsieur Homais. Nessuno se ne accorse allora - né poteva essere altrimenti - ma il piccolo episodio bolognese accendeva la scintilla di un vero, grosso, episodio di revisionismo storico.

Certo, rovesciava vecchi dogmi e convinzioni radicate, tutte rintracciabili nella sicumera laicista del “Mondo” e vicinanze; magari, i suoi seguaci ospitavano nelle loro sedi qualche sopravvissuto circolo “Giordano Bruno”, frequentato da illusi che il settimanale satirico “Don Basilio” potesse riesumare quell’evento giornalistico eccezionale che era stato “L’Asino” di Podrecca e Galantara. Di tutto quel ciarpame, morto di consunzione e di solitudine, anche con la complicità del togliattismo che aveva decretato l’inserimento del Concordato nella Costituzione repubblicana e antifascista, Pannella restituiva alla luce il bric-à-brac dandogli qualche dignità, circondandolo della sua “pietas” storica. Ma prendendone rispettosamente le distanze.

L’anticlericalismo pannelliano non aveva nulla del “Don Basilio”. Si era abbeverato da altre fonti, tra le quali le leggende metropolitane privilegiavano quelle francesi, e in special modo il pensiero diffuso dalla rivista “Esprit”. Per la verità, qualcuno, nelle stanze del “Mondo” e anche nelle sedi universitarie o liberali bazzicate dal giovanissimo Marco, aveva avuto il sospetto che l’allampanato, appassionato lettore del “Risorgimento Liberale” di Pannunzio avesse qualche nascosta simpatia per il cattolicesimo, magari anche un po’ destrorso. Negli suoi interventi politici, su certe questioni non era mai molto chiaro o meglio, per quegli ascoltatori, comprensibile. Molti lo consideravano un ragazzo generoso ma un po’ confuso e confusionario, insomma poco affidabile: che maturasse, poi si vedrà. Ma quando la campagna divorzista cominciò a dipanarsi, quando decollò davvero, il senso di quell’anticlericalismo anomalo si fece più terso, almeno per chi vi ponesse un po’ di attenzione e di seria riflessione (il che non successe nemmeno, totalmente, nelle file dei neoradicali).

Era, quello, l’anticlericalismo di un credente, non di un razionalista, o tanto meno di un positivista come in realtà erano, stringi stringi, i crociani del “Mondo”, che di dialettica dello spirito non masticavano proprio nulla. Dalle bordate divorziste di Pannella fiorivano espressioni un po’ strane. Cosa è il partito radicale? “Un partito di credenti e non credenti”. Il Comitato antidivorzista degli intransigenti, i Gabrio Lombardi, i Cotta e compagnia? Un movimento di credenti autentici, credenti nella fede e non nel potere mondano della DC, per capirci. Parole incomprensibili per i laicisti che negli stessi tempi, per loro conto, stavano tessendo alleanze con la affidabilissima, democraticissima DC, baluardo unico contro le prepotenze integraliste delle frange estreme del mondo clericale. Eppoi, Pannella apriva a protestanti, atei, miscredenti, profughi ed eretici di ogni genere le porte di un dibattito che cominciò a fluire verso lidi insospettati: fogli e periodici protestanti come “La Luce”, organo della Chiesa Valdese e, sulla sponda opposta, “Questitalia”, una stupenda rivista diretta da Wladimiro Dorigo e nutrita da cattolici coraggiosamente protesi verso confronti spirituali e democratici con il mondo dei liberi e dei liberali, arrivando a dedicare un numero alla denuncia del Concordato oppure ospitando pagine intere di un Notiziario tratto dalla “Agenzia radicale”.

L’anticlericalismo pannelliano poneva il problema della religiosità non come fenomeno residuale, prodotto dell’incultura delle masse popolari, dell’ignoranza delle plebi affascinate dai miracoli di San Gennaro, magari nobilitato dalla gentiliana definizione di filosofia inferiore, buona per le anime semplici e i bimbi delle elementari. Nemmeno si volgeva prioritariamente, come accadeva nelle coltissime, eccezionali pagine del “Mondo” pannunziano, a rivendicare meriti e problematiche del cattolicesimo italiano nella sua lunga e travagliata vita, pagine che Spadolini nutriva di uno spirito sottile, politicamente mirato ad ottenere un “Tevere più largo”, vale a dire una riedizione più attenta, meno pericolosa, del gentilonismo di inizio secolo, ancora una volta in funzione di contenimento delle spinte di una sinistra eversiva come era, o si temeva fosse, quella comunista. Se si guarda a certe vicende che maturavano sulle sponde della sinistra o in quelle dei moderati, ci si accorge che il mondo cattolico era l’oggetto neppure segreto del desiderio, tutto politicamente giustificato, di quei due schieramenti contrapposti.

Nessuno dei due, in realtà, avrebbe guadagnato alcunché dalla sospirata alleanza, o “mésalliance”. Né le sinistre, giunte al massimo del loro successo in questo campo con il fallimentare decennio di unità nazionale berlingueriana, né il mondo moderato, con i suoi partiti più idealmente rappresentativi, il repubblicano lamalfiano e il liberale malagodiano, ridotti via via al ruolo di succubi del partito cattolico, abilissimo nel giocare su tutti i fronti e su tutti i tavoli pur di mantenere una sostanziale egemonia sul paese. L’iniziativa pannelliana sconvolgeva questo quadro, le sue linee portanti. Pannella fu come il Gian Burrasca che manda a monte il matrimonio segretamente celebrato in chiesa dal deputato socialista ufficialmente, e in pubblico, legato alle pregiudiziali laiciste del tempo, Il leader neoradicale faceva appello alla fede dei tutti, delle donne e dei preti, della gente di fede insomma, esortandoli perché mettessero in discussione se stessi, e dunque la Chiesa; perché si proiettassero alla ricerca di verità interiori più alte, più rigorose di quelle comandate dal catechismo o dal parroco. Faceva appello alla dignità interiore del singolo, del “cittadino”, perché portasse la contraddizione dell’essere insieme, appunto, cittadino e credente, al fuoco rovente di un dubbio da cui solo potesse scaturire una verità più alta, drammatica ma storicamente più spessa e “contemporanea”.

C’era forse, nel messaggio pannelliano, anche un bel po’ di astuzia “politicante”: certo Pannella voleva evitare che la campana divorzista venisse denunciata come il rintocco di un rinato anticlericalismo volgare e plebeo, alla “Don Basilio” appunto. Ma la scelta, qualunque fossero le motivazioni, era estremamente raffinata, e tale da mettere a disagio l’interlocutore e l’avversario. Pannella si rivolgeva alla laicità del credente, non al laicismo del miscredente o dell’ateo, del benpensante borghese. Quella laicità era rifiuto del laicismo, nei suoi dogmi e nelle sue ipocrisie. Era, e questo scandalizzò il benpensantismo, in primo luogo quello laicista, una laicità pungente, provocante e provocatoria quanto invece il laicismo è prudente e calcolatore, quando non cinicamente indifferente: perché, sempre, la laicità è aggressiva e persino violenta, come può essere violenta la nonviolenza, nello sforzo che l’una e l’altra fanno per rimettere continuamente in discussione se stesse e la loro prassi. Se non lo fossero, si rinchiuderebbero nel guscio della loro presunzione (un po’ come accadde a quei settori antimilitaristi che, una volta conquistata l’obiezione di coscienza, si diedero alla gestione dei benefici lucrati, facendo morire la conquista nella palude del più piatto burocratismo).

Pannella, quei radicali, esercitavano la laicità non elaborando trattati variamente teorici, ma parlando e dibattendo nelle piazze, nel contatto con la gente, le popolane e gli “incolti”, Era la “agorà”, la tecnica e teoria del “narrare”, l’oralità, opposte al teorizzare e alla scrittura colta dei pochi per pochi. Era la capacità di convincere contrapposta all’abilità del congegno dialettico-sillogistico. Era il collaudo della fiducia (e magari della fede) conquistata nel dibattito, contro il documento. Era, detto esplicitamente, una laicità liberatrice, delle masse e dei singoli: un fenomeno, letto sotto altra luce, del tutto religioso. Non aveva avuto bisogno di richiamarsi alla “religione della libertà” cantata da Croce: ma per un solo motivo, e cioè che la “religione della libertà” significava in realtà la rinuncia alla lotta politica, mentre l’impegno dei nuovi radicali innalzava orgogliosamente il suo nuovo motto: “politica è cultura, o non è”.

Vogliamo rovesciarlo, per un istante? Suona così: “Cultura è politica”. Ecco perché (come cercheremo di chiarire successivamente) il suo primo obiettivo era, ed ancora oggi è, l’abrogazione del Concordato.