debat precongresual

Dibattito intorno al 40° Congresso Straordinario del Partito Radicale. Intervento di Roberto Cicciomessere



ll 9 luglio scorso, ai sensi dello Statuto del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, articolo 2, un terzo degli iscritti da almeno sei mesi al partito ha convocato il 40° Congresso straordinario del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, da giovedì 1 settembre (a partire dalle ore 14) a sabato 3 settembre, a Roma, presso il penitenziario di Rebibbia, Via Raffaele Majetti 75, con il seguente ordine del giorno:

 

  • relazione del Tesoriere;
  • saluti istituzionali del Ministro della Giustizia, del Direttore del DAP, del Direttore del penitenziario di Roma Rebibbia;
  • approvazione dell'ordine dei lavori, dell'ordine del giorno, del regolamento congressuale;
  • dibattito generale sullo stato del Partito;
  • Eventuali modifiche statutarie proposte in Congresso;
  • Approvazione della mozione;
  • Elezione degli organi.

 

Questo il comunicato dei convocatori del Congresso straordinario. Quaderni Radicali e Agenzia Radicale ritengono utile l’apertura di un dibattito precongressuale in questa fase critica e difficile dopo la morte di Marco Pannella.

 

Di seguito l'intervento di Roberto Cicciomessere

 

 

 

Il partito transnazionale è morto,

viva il nuovo partito radicale federale che conduce ambiziose campagne transnazionali

 

di Roberto Cicciomessere (www.robertocicciomessere.eu)

 

L’intervento di Lorenzo Strik Lievers che propone alcune “idee per un partito transnazionale da ricostruire” - il più strutturato e ricco di spunti tra quelli pubblicati negli ultimi mesi  - mi consente di proporre alcune considerazioni critiche, ma anche di consenso ad alcune sue proposizioni. Mi scuso in anticipo per un testo troppo prolisso, ma la quantità di temi che deve affrontare questo congresso e l’assenza di un vero dibattito precongressuale m’impediscono di scriverne uno più sintetico.

 

 

Altro che dibattitto procedurale: è in gioco la decisione di aprire una vera discussione su come rifondare il partito (se è possibile) o fare finta che sia vivo e vegeto per affossarlo definitivamente

 

La premessa liquidatoria del dibattito “procedurale” manifesta sicuramente la sua volontà di tenersi fuori e forse “sopra” questioni che non sono affatto cavilli sollevati strumentalmente per altri fini, ma investono la sostanza dell’esito congressuale e pregiudicano proprio le conclusioni a cui arriva Lorenzo nel suo scritto. Ammesso che esistano due gruppi omogenei (lo nego, almeno per quanto mi riguarda), è dichiarata la volontà dei promotori del congresso straordinario di arrivare a un voto finale di una mozione e alla elezione degli organi statutari sulla base di una esplicita premessa: Maurizio Turco, Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Matteo Angioli, Valter Vecellio e alcuni altri sostengono che non c’è niente da discutere, perché l’obiettivo del partito transnazionale è chiaro, ambizioso ed esplicitamente indicato (intendendo rivelato) da Marco e cioè la transizione verso democrazia fondata sul Diritto umano universale alla conoscenza, da conquistare nelle sedi internazionali e nazionali.

 

A questi stessi compagni non interessa neppure domandarsi perché il partito è stato sostanzialmente ibernato da almeno un lustro, per espressa volontà di Marco Pannella (torno dopo su questo argomento), e sulle ragioni della totale assenza di alcun connotato di transnazionalità (i non italiani sono solo quattro), che possa giustificare l’utilizzo di questa qualificazione del soggetto radicale. Per loro, viceversa, il partito è vivo e vegeto e ha bisogno solo di un segretario che non sia un fellone.

 

Queste stessi compagni hanno, di conseguenza, respinto sdegnosamente la ragionevole proposta di Radicali italiani e tanti altri di prevedere un congresso a sue sessioni, che possa discutere in un lasso di tempo ragionevole (non nei tre giorni di Rebibbia) come “ricostruire” un partito transnazionale che non c’è più e che non dà segni di vita da almeno un lustro.

 

È la stessa conclusione congressuale che Lorenzo propone nel suo intervento con la costituzione di un “comitato promotore” con il compito di concepire “la necessariamente nuova forma statutaria e organizzativa del partito” finalizzata “a contrastare e a ribaltare le derive nazional - sovraniste e antipolitiche”.

 

Non è una questione di poco conto, ma è la scelta centrale e forse unica del dibattito congressuale: nel pomeriggio del 3 settembre sapremo se avrà successo il “colpo di mano, per ottenere la sanzione di un voto congressuale all'impossessamento da parte di un gruppo ristretto di quel che resta del patrimonio radicale” - uso le parole di Gianfranco Spadaccia - oppure, come anche Lorenzo auspica, si aprirà una fase di dibattitto e di verifica sulle effettive possibilità di “ricostruire” su nuove basi politiche e organizzative, lungo il solco tracciato da Marco Pannella, “un vero partito transnazionale”, con la vittoria, aggiungo, di tutti i radicali che non tifano per una setta. La prima scelta, come cerco di dimostrare subito dopo, rappresenta anche il definitivo affossamento del PRNTT.

 

Lorenzo stesso precisa che questo percorso è inimmaginabile senza Gianfranco Spadaccia, Emma Bonino, Angiolo Bandinelli e aggiungo senza Riccardo Magi, Filomena Gallo, Valerio Federico, Marco Cappato e Niccoló Figá-Talamanca che sono i responsabili statutari delle uniche organizzazioni “costituenti” del PRNTT che fanno realmente politica italiana e transnazionale, riempiono persino le sedi di nuovi radicali, a prescindere dal giudizio politico che ognuno può legittimamente dare sulle loro iniziative.

 

Non è un dibattitto procedurale chiedersi se la scelta del Carcere di Rebibbia come sede congressuale nei soli giorni di giovedì (pomeriggio), venerdì e sabato, sicuramente la meno accogliente tra quelle che si potevano individuare, che ha spinto persino Angiolo ad annunciare che non andrà al congresso, sia finalizzata a scoraggiare una presenza numerosa e a garantire a un piccolo gruppo di decidere frettolosamente gli esiti congressuali.

 

Aver respinto la proposta di svolgere il congresso in due sedi, una chiusa nel carcere romano e l’altra aperta al pubblico e fino a domenica, avanzata anche da iscritti senza alcun carica, con argomenti decisamente pretestuosi si muove nella stessa direzione di non incentivare la presenza congressuale.

 

Lo stesso slogan del congresso - da Ventotene a Rebibbia - prefigura un passaggio da un obiettivo federalista a quello tutto italiano della lotta sulla giustizia e per l’amnistia che non lascia ben sperare sulle ambizioni transnazionali dei promotori.

 

Perché il patrimonio radicale, soprattutto dopo la morte di Marco, deve essere nelle disponibilità di un soggetto non legittimato da alcun voto?

 

È sempre dall’alto delle grandi proposizioni politiche a nessuno a consentito ignorare, come fa Lorenzo, le vili questioni connesse ai patrimoni e ai denari, a cui Marco dedicava la massima attenzione, anche attraverso il ruolo politico del Tesoriere che lui ha voluto pervicacemente statuire nello statuto e nella prassi.

 

È cosa di poco conto che, anche prescindendo dal valore monetario del “patrimonio radicale” stimato da alcuni in 50 milioni, che l’editore di Radio Radicale sia un soggetto privo di alcuna democrazia interna e di alcuna legittimazione attraverso un solo voto anche di uno degli organi del PRNTT o dei soggetti costituenti? Laura Arconti, Rita Bernardini, Aurelio Candido e Maurizio Turco, soci unici dell’associazione titolare anche della sede di Torre Argentina, garantiranno, come ha fatto Marco Pannella, la piena agibilità politica a tutte le componenti della galassia radicale o invece solo a quelle “ortodosse”?

 

La decisione di Marco di trasferire, su sua decisione solitaria che non può essere modificata da alcuna istanza radicale, la disponibilità del “patrimonio radicale” a un soggetto non contendibile - Associazione politica nazionale Lista Marco Pannella - è condivisibile e legittima?

 

Certamente non ignoro il grave problema di un soggetto che potrebbe essere contendibile con un modesto pacchetto di duecento tessere (solo 8,33 euro a tessera se costituito da cittadini del Marocco), ma le soluzioni per superare questo problema e garantire che il patrimonio radicale sia finalizzato al sostegno delle iniziative radicali erano tante, persino discusse all’interno del partito (fondazione, trustee, ecc.): è un grave errore che Marco le abbia ignorate e che non abbia garantito una transizione dopo la sua inevitabile morte, quando era nel pieno della sua straordinaria lucidità politica.

 

È altrettanto legittimo il sospetto che per sanare questa mancata legittimazione da parte di qualsiasi organo politico dell’associazione Lista Marco Pannella, si voglia creare una identificazione fra soci dell’associazione e cariche statutarie del PRTT e magari procedere a un maquillage della prima trasformandola in qualcosa di appena presentabile, ovviamente impedendo che in essa siano rappresentati i soggetti costituenti (ed eletti da un regolare congresso) del partito radicale transnazionale.

 

Occorre uscire dall’illusione che la causa dei nostri fallimenti sia solo il regime

 

Ma veniamo all’altra grande mancanza dell’intervento di Lorenzo: ignora completamente gli errori politici che sono stati compiuti da Marco Pannella e che sono, accanto alle sue grandi e tante vittorie, la causa della situazione, forse non superabile, della crisi del PRTT. Errori ovviamente che ho condiviso pienamente e che solo nell’ultimo decennio ho riconosciuto come tali.

 

Non rivelo (spero) un segreto che nei dialoghi personali con Lorenzo abbiamo condiviso in molte occasione alcune di queste critiche e per questo sono stupito per la loro assoluta mancanza nel suo scritto.

 

Non si può “ricostruire” un nuovo partito nonviolento, transnazionale e transpartitico senza farsi carico di una revisione profonda anche di alcuni pilastri della nostra teoria politica, ma vivere nel sogno che i nostri fallimenti dipendano solo dagli altri, dal regime, cullarsi nella giustificazione che non riusciamo da decenni a convincere all’iscrizione più di mille cittadini italiani, solo perché è mancato il diritto all’informazione. Anche all’indomani delle ore di trasmissione, nei momenti di maggiore ascolto di tutte le televisioni nazionali e locali, dei servizi, perfino eccessivamente encomiastici, sulla figura e la storia politica di Marco, all’indomani della sua morte, gli iscritti a tutti i soggetti radicali sono rimasti sempre sotto il tetto di mille.

 

Mi riferisco anche ai duri contrasti su alcune posizioni politiche di Marco, richiamate espressamente nella risoluzione generale del 39° congresso del PRNTT di Roma del 2011, prima di tutte quelle sulla mancanza di democrazia in Italia (peggio del fascismo…), sull’amnistia e sulla partitocrazia, su cui sono intervenuto lungamente (e inutilmente) in una recente riunione italiana del partito cercando di dimostrare come siano affermazioni politiche non confortate dalla realtà: oggi in tutto il mondo, tranne nel partito radicale transnazionale, la scienza politica e i politici più avvertiti discutono delle conseguenze nefaste della fine dei partiti strutturati e dei corpi intermedi, non sostituiti né dalla democrazia diretta (forse questo non è un male :-) e neppure da altre modalità di esercizio della democrazia rappresentativa che esige forme di mediazione tra il popolo e il potere, affinché le elezioni non si riducano solo a uno scontro tra tifoserie.

 

Rischiamo di passare, nel mondo occidentale, a una specie di post-democrazia controllata in buona parte dai media attraverso la somministrazione di spettacoli nei quali brilla l’incompetenza, che hanno sostituito le campagne elettorali e i confronti politici, con la scomparsa di tutti gli organismi di canalizzazione e di trasformazione in proposte politiche delle spinte, spesso contraddittorie, di un popolo che non si può più classificare in rigide classi. È scomparsa la stessa figura dello statista che dovrebbe avere il compito di distillare il tumulto per trasformarlo in idee praticabili ed efficaci, d’impedire che la lotta politica si tramuti in denigrazione reciproca permanente, dove vince non chi ha idee migliori, ma chi grida più forte contro la “casta” e con la maggiore amplificazione dei media.

 

Lo stesso cittadino rischia di trasformarsi in consumatore passivo di una rissa verbale continua basata solo sul disprezzo, spesso meritato, di tutta la classe politica, che ha espulso completamente l’asprezza del vero confronto politico su valori e progetti, anche se s’illude di essere protagonista, per adesso solo di sfasci come la Brexit.

 

Semplificare tutto ciò con gli slogan dell’assenza della democrazia - affermazione che sarebbe dimostrata quasi esclusivamente dalla mancanza di condizioni carcerarie decenti - non porta molto lontano e non aiuta a trovare soluzioni alla crisi della democrazia, non solo italiana: per rimanere nel tema di questo congresso, questo regime peggio del fascismo non ha recluso a Ventotene la radicale Emma Bonino, ma l’ha scelta prima come commissaria italiana a Bruxelles e poi come ministra alla Farnesina.

 

Proprio la focalizzazione solo su queste tematiche della politica radicale, accanto alla carenza di democrazia interna, sono le principali ragioni della mancata iscrizione al partito, emerse da un sondaggio di grande qualità scientifica, che Rita, Marco (Beltrandi) e Maurizio hanno dichiarato inattendibile e quindi da non pubblicare, ovviamente in nome del diritto alla conoscenza.

 

L’inconsistenza della campagna per il diritto alla conoscenza

 

Mi domando ancora: siamo sicuri che sia possibile, come scrive Lorenzo, “far proseguire e rilanciare l’esperienza del Partito radicale transnazionale” attraverso “la continuazione, il perfezionamento e lo sviluppo, con gli strumenti che si sapranno creare, delle battaglie già intraprese: innanzi a tutte, l’ultima grande battaglia impostata da Marco Pannella sulla transizione verso lo stato di diritto a partire dalla statuizione del diritto alla conoscenza”?.

 

Chiedo a Lorenzo che è persona per bene, perché i follower di questa “campagna” non hanno saputo rispondermi, cosa s’intende per diritto alla conoscenza?

 

Infatti, il diritto alla conoscenza può essere declinato in decine di significati, alcuni dei quali già recepiti dal diritto o da organismi internazionali:

 

  1. il Freedom of Information Act, il diritto di accesso agli della pubblica amministrazione, in base al principio di trasparenza e imparzialità che trova i suoi limiti in altri due diritti da tutelare , quello alla privacy e dell’interesse nazionale;
  2. i limiti più stringenti al segreto di Stato;
  3. il diritto del cittadino di essere informato, collegato al diritto del giornalista ad accedere liberamente alle fonti d’informazione;
  4. il diritto alla verità riconosciuto dal diritto internazionale che si riferisce alle gravi violazioni dei diritti umani e al diritto alla riparazione e alla non-ripetizione di questi crimini;
  5. tutta la nuova serie di diritti di conoscenza legati alla rete internet su cui Rodotà ha scritto numerosi libri.

 

Giuseppe Laterza, presidente dell’omonima casa editrice, è riuscito a declinare, in un gustosissimo saggio, il diritto alla conoscenza in altri 33 possibili significati, dal cosiddetto datagate - l’agenzia americana che raccoglie milioni di dati e li adopera per controllare le persone su scala planetaria e il diritto di queste stesse persone di tutelarsi dall’uso ai propri danni di queste informazioni, anche sulle proprie debolezze - al diritto di tutti i cittadini del mondo di conoscere come i detentori di grandi poteri economici, che ormai travalicano i confini degli Stati, esercitano questi stessi poteri nei confronti della politica e come possano essere controllati.

 

Viceversa, nessuno dei radicali sostenitori di questo “storico” obiettivo politico ha saputo spiegare cosa intende per diritto alla conoscenza e soprattutto a scrivere la norma o la risoluzione da proporre davanti a una istanza internazionale.

 

A riprova di quanto scrivo, cito la mozione approvata dalla III Commissione della Camera e presentata dalla deputata e compagna radicale Gea Schirò: dopo aver richiamato il diritto alla Verità, il diritto all’informazione, alla privacy, le conclusioni del convegno radicale, invita il Governo a farsi promotore di iniziative in ambito ONU che conducano l'Organizzazione, le sue agenzie specializzate e gli Stati membri a intraprendere un'azione volta a favorire una transizione comune verso lo Stato di diritto e a codificare a livello universale il nuovo diritto umano alla conoscenza.

 

Non vorrei trovarmi nei panni del Governo investito dell’arduo e ingrato compito sia di definire a quale diritto alla conoscenza ci si riferisce, sia di precisare come s’intende codificare nel diritto internazionale questo diritto.

 

Anche Bandinelli, nel suo articolo del 6 agosto sull’Opinione, non va molto avanti nella precisazione di cosa intendiamo per diritto alla conoscenza, a partire da premesse interamente condivisibili: “Oggi questa esigenza è divenuta, persino al di là della presenza radicale, esigenza universale, che si manifesta in forme nuove, anomale, anche insufficienti, debitrici spesso del “web” ma anche contenuto di grandi, tortuosi movimenti di massa che hanno saputo spesso varcare i confini, le barriere tra i popoli e le nazioni. Il Diritto umano alla conoscenza è oggi un “prius”, è l’agenda politica centrale, universale, del nostro tempo. Tutto il resto è accademia, fuga dalla concretezza delle proprie responsabilità etiche e politiche”.

 

Ma noi non siamo mai stati quelli che volevano affermare diritti universali generici - quelli che poi vengono smentiti dai fatti, come denuncia il preambolo allo statuto - ma diritti concreti e identificabili e traducibili in una legge vincolante: non la giustizia universale, ma il tribunale internazionale sui i crimini contro l’umanità, neppure l’abolizione della pena di morte ma la moratoria della pena capitale, non i diritti delle donne islamiche ma l’abolizione delle mutilazioni genitali femminili.

 

Qual è il grande obiettivo e progetto politico che Angiolo attribuisce alla campagna per il diritto alla conoscenza e sul quale mobilitare il mondo intero?

 

Ma l’epitaffio più crudele sulla lapide dell’ignoto diritto alla conoscenza lo scrive Adriano Sofri quando evoca l’ambizione “sproporzionata” di affrontare lo stato del mondo attraverso la «campagna sul “diritto alla conoscenza” come fonte della transizione allo stato di diritto in tutto il mondo, compreso il nostro, della democrazia in affanno. Io dubito che si tratti di una tautologia più che di un’efficace mobilitazione». Questo dubbio sembra confermato dalla irrilevanza di questa campagna anche nei ristretti circoli della politica internazionale.

 

Anche per quanto riguarda la transizione sono intervenuto fin troppo lungamente e con una domanda: quanto dista dalla “democrazia” (qual è il modello perfetto?) l’Egitto e quanto l’Italia? Democracy Barometer ha provato a misurare, con metodologie appena più scientifiche, questa distanza e l’Italia si colloca al 27 posto della classifica mondiale (prima la Norvegia), superata dalla Francia (14° posto), dagli Stati Uniti (16° posto) e da Israele (24° posto), mentre l’Egitto di colloca al 108° livello della graduatoria: insomma, ci sono almeno un paio di secoli d’illuminismo da recuperare.

 

La riprova dell’inconsistenza in termini di obiettivi puntuali e politici emerge soprattutto quando si analizzano le iniziative concrete di questa battaglia per il diritto universale alla conoscenza con il quale dovremmo coinvolgere l’opinione pubblica mondiale: un paio di prestigiosi convegni internazionali e l’approvazione della nota mozione da parte dei comuni di Rionero in Vulture, Verbicaro, San Nicola Arcella, Santo Stefano di Cadore e di molte altre amene località italiane.

 

Queste fondamentali iniziative di lotta politica transnazionale, di mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale rappresentano il progetto centrale della mozione che “una piccola organizzazione settaria di ortodossi e fanatici” (cito sempre Gianfranco Spadaccia) si ripromette di far approvare dal 40° congresso.

 

Rappresentano, soprattutto, il definitivo affossamento del partito radicale, trasformato in una triste organizzazione di reduci, che sopravvivrà solo per il tempo in cui potranno sfruttare il nome di Marco Pannella.

 

Questo è il progetto centrale della politica radicale transnazionale, sulla quale costruire un ambizioso futuro, evocata non solo da Maurizio e dai suoi sodali, ma pedissequamente ripetuto anche da tanti ragionevoli dirigenti radicali?

 

La nostra comprensione del mondo è veramente così robusta?

 

L’ulteriore domanda che rivolgo a Lorenzo è un’altra: siamo sicuri che il bagaglio di analisi politiche del “contesto mondiale” del partito radicale siano sufficientemente robuste e adeguate al presente?

 

Lorenzo risponde in parte: «Che la realtà odierna sia radicalmente diversa è sotto gli occhi di tutti. Rimane più che mai vero, e semmai più drammaticamente vero di allora, che la dimensione transnazionale è quella decisiva, e che per chi voglia agire sulle sorti del mondo assume o assumerebbe un valore essenziale un’efficace organizzazione politica transnazionale di cittadini. Ma per il resto: oggi, per ragioni su cui non posso qui tentare un’analisi, soffia impetuoso in occidente il vento di un “sovranismo” antipolitico che assume quale valore preminente l’affermazione del “noi”, nazionale, o regionale, o etnico o altro affine; e che svaluta e contesta insieme le organizzazioni sovrannazionali (Unione Europea, ONU ecc.) e la logica del primato dei diritti della persona umana al di sopra delle sovranità degli stati».

 

Forse il rischio che corriamo e che tutti dovrebbero disinnescare è un po’ più grave: la regressione del livello di democrazia liberale raggiunto dall’occidente e dello stesso disegno dell’Unione europea, determinato dall’affermazione congiunta del populismo e dall’autoritarismo che si legge nell’affermazione repubblicana di Trump, nella Brexit, nella svolta autoritaria di Erdogan, ma anche di paesi come l’Ungheria, nel voto del 50% dei cittadini austriaci a favore di un presidente con simpatie naziste e, in un domani non lontano e possibile, nell’affermazione probabile come presidente del consiglio di un webete come Luigi Di Maio, dopo la sconfitta del referendum costituzionale, che come prima iniziativa attiverà un referendum consultivo sulla permanenza nell’Euro. Il tutto aggravato da una gestione irresponsabile dei biblici flussi migratori, che oscilla tra il buonismo inconcludente dell’accoglienza senza integrazione e l’ottuso razzismo dei muri e dei fili spinati che si stanno alzano in gran parte dei paesi dell’Unione.

 

Sul terrorismo islamista che lambisce sono marginalmente l’Europa (sono europei solo lo 0,8% delle vittime degli attentati, mentre il 99,2% è costituito da cittadini islamici dell’Africa, Medio Oriente e Asia), ho scritto qualcosa nei giorni scorsi: credo che la vera guerra non si combatti in Europa, anche se il rischio di una sua estensione è altissimo.

 

Questi avvenimenti si possono spiegare con il risorgere dei fantasmi dei nazionalismi in Europa, ma sono sempre più numerosi e autorevoli coloro che spiegano questi fenomeni, innanzitutto i premi Nobel per l’economia Stigliz e Deaton, come effetti di un malsano governo della globalizzazione, che ha portato nel Sud del mondo immensi benefici con l’affrancamento di milioni di persone dalla povertà e dalla malattia, mentre ha determinato una frattura sempre più grande e insanabile tra i super ricchi, che rappresentano l’1 per cento dei cittadini, e il resto della popolazione, in particolare l’ex ceto medio, che ha visto il proprio reddito stagnare e in alcuni casi decrescere. Il problema della diseguaglianza globale da problema politico e morale è divenuto fattore economico d’interesse preminente tra i maggiori economisti per le conseguenze che determina sulla sostenibilità del nostro modello economico e delle stesse istituzioni politiche e statuali. Gli stessi economisti affermano, per fortuna, che queste non sono le conseguenze inevitabili della globalizzazione e delle leggi dell’economia, ma il risultato di scelte politiche.

 

In Europa i larghi e diffusi sistemi di welfare limitano l’impatto della diseguaglianza, mentre negli Stati Uniti e in Parte nel Regno Unito gli effetti sono sempre più devastanti, ma questi sistemi di protezione collettiva e di redistribuzione del reddito stanno diventando insostenibili dal punto di vista delle risorse, anche e soprattutto per l’invecchiamento della popolazione e la flessione della natalità.

 

È certo che di fronte a tutto ciò ci vorrebbe più Europa con la capacità d’intervenire sugli effetti devastanti delle modificazioni demografiche e dell’ingiustizia, una gestione più efficace e rispettosa dei diritti di asilo dei flussi migratori, una lotta contro i nuovi e vecchi autoritarismi e proibizionismi, soprattutto nel mondo islamico e, quindi, più partito transnazionale. Ritornando alla domanda iniziale, il partito transnazionale che abbiamo conosciuto e quello che si prefigura nell’impostazione un po’ settaria e ideologica dei compagni ferventi sostenitori del diritto alla conoscenza, a cui anche Lorenzo attribuisce grande valenza politica, ha gli strumenti di robusta e attuale analisi politica e organizzativi non certo per fronteggiare i fenomeni mondiali a cui prima ho accennato solo per titoli, ma anche per “dettare l’agenda politica” nella sola Unione europea su un tema qualificante anche se circoscritto, come ha detto Geppi Rippa nell’ultima riunione radicale?

 

Rispetto al drammatico problema demografico europeo, ha qualche coerenza la posizione sostenuta da Marco per il “rientro dolce” e l’evocazione dei “limiti allo sviluppo” del Club di Roma, in un mondo che oggi ha invece un surplus di offerta di energia fossile rispetto alla domanda e che ha aumentato la produttività del settore agricolo, anche grazie agli OGM, di molti ordini di grandezza?

 

Perché oggi sarebbe possibile ricostruire il modello di partito radicale transnazionale sul quale Marco ha fallito?

 

La proposta centrale e finale di Lorenzo è un “Partito radicale che esca dal congresso con l’ambizione smisurata, e con l’umiltà, di porsi come comitato promotore di un simile rinnovato partito transnazionale”: “perché non chiedere un impegno diretto di partecipazione dirigente a personalità che hanno dato il loro apporto all’iniziativa per la transizione allo stato di diritto?

 

Anche Gianfranco Spadaccia scrive che ad imporci la necessità del partito nonviolento, transnazionale e transpartito “sono innanzitutto la crisi dell'Unione Europea e la crisi di una globalizzazione mai governata”.

 

Mi permetto di sussurrare che la domanda centrale non riguarda il bisogno di un partito radicale nonviolento, transnazionale e transpartito, su cui tutti siamo d’accordo, ma se noi siamo in grado di ricostruirlo con l’effettiva capacità di governare la crisi dell’Unione e della globalizzazione.

 

Che poi questo partito con queste ambizioni non sia costituito da persone della tempra di Marco Pannella, Gianfranco Spadaccia, Mauro Mellini, i fratelli Rendi, Alma Sabatini, Franco Roccella, Massimo Teodori, Luca Boneschi, Lorenzo Strik Lievers, Angiolo Bandinelli, Andrea Torelli, Giuseppe Loteta …, ma dalle personalità che hanno dato il loro apporto alla campagna per il diritto alla conoscenza come il cavaliere del Sacro Romano Impero Giulio Terzi di Sant'Agata, Daniel Cohn-Bendit, Bakhtiar Amin, già ministro per i diritti umani dell’Iraq, Mokeni Ataningamu, senatore della repubblica democratica de Congo, Gianfranco Borelli, Antonio Tajani, Luigi De Magistris e André Gattolin, tanto per fare alcuni nomi, mi sembra perlomeno un’ingenuità, solo per essere accomodanti. Possiamo liquidare questa suggestione senza rimpianti, come tanti altri manifesti radicali sottoscritti da chi lo fa per professione, salvo smentirli alla prima occasione.

 

A questo proposito credo che sia necessario ricordare com’è nato il PRNTT. La sua ambizione era quella di costituire un vero e proprio “partito”, che si poneva già all’inizio in alternativa alle internazionali dei partiti politici nazionali come quelle socialiste e liberali, capace di presentare contemporaneamente in 100 parlamenti nazionali la stessa legge. Non voleva neppure essere una ONG caratterizzata da un obiettivo o da un tema, ma un soggetto politico capace d’indirizzare un folto numero di parlamentari nazionali su determinate iniziative.

 

Sappiamo che nonostante tutti i tentativi, anche di chi scrive, questo risultato non è stato raggiunto: nella mozione approvata dalla prima sessione del 38° congresso del PRNTT di Ginevra del 2002 si prende atto che “il partito rimane oggi partito di iscritti quasi esclusivamente italiani, in buona parte coinvolti anche nell’attività di Radicali italiani” … “Il partito non dispone di forme di collegamento con altri soggetti organizzati”…” Il partito non dispone di un modello adeguato di organizzazione, di struttura e di reperimento delle necessarie risorse economiche e finanziarie”…”si decide di tenere aperti i propri lavori fino alla seconda fase congressuale da tenersi entro novembre; si da’ l’obiettivo di arrivare alla seconda sessione con un Congresso che prefiguri, e in parte già rappresenti, il partito degli "oppressi di tutto il mondo", soggetto transnazionale e transpartito ad adesione diretta in grado di operare allo stesso giorno e alla stessa ora in molti Paesi e in molti Parlamenti, come vera e propria internazionale nonviolenta dello stato di diritto”.

 

La seconda sessione non si terrà perché l’obiettivo non viene raggiunto e solo dopo nove anni, nel 2011, si svolge il 39° congresso a Roma, nel quale tutte le criticità dichiarate in quello di Ginevra rimangono immutate, dal momento che l’attività politica è sostanzialmente azzerata fino ad oggi, non solo per la scomparsa, forse prevedibile, del segretario. In questo periodo, si raggiungono risultati straordinari quali l’istituzione dei Tribunali ad hoc per l’ex Yugoslavia, il Rwanda e per il Sierra Leone e soprattutto la Corte Penale Internazionale, anche grazie al lavoro di Non c'è pace senza giustizia.

 

Mi chiedo e chiedo a Lorenzo Strik Lievers, Gianfranco Spadaccia e Marco Cappato, che sostengono la necessità di rilanciare il partito transnazionale come intendano oggi, a 14 anni dal congresso di Ginevra, risolvere quelle stesse criticità, in assenza di fatti nuovi, almeno a me conosciuti.

 

Dalle pochissime informazioni disponibili nel sito del PRNTT, naturalmente in nome del diritto alla conoscenza, risulta che gli iscritti nel 2016 sono 997, dei quali 27 sono residenti all’estero (2,8%), ma probabilmente solo 4, a giudicare dal nome, non sono italiani (0,4%): il partito transnazionale non esiste.

 

Sempre dalla stessa fonte risultano poco meno di 300 mila euro di ricavi per iscrizioni: anche supponendo che ci siano altri contributi per arrivare a 400-450 mila euro (non sono stati forniti neppure bilanci provvisori), questa cifra probabilmente corrisponde a quella spesa per l’organizzazione dell’ultimo congresso di Roma e delle sue fasi preliminari.

 

Greenpeace International ha avuto nel 2014 un bilancio consolidato di circa 300 milioni di dollari e la sola sede italiana ha avuto entrate per 7 milioni di euro; il bilancio non consolidato per il 2015 della più piccola organizzazione internazionale Friends of the Earth è pari a circa 12 milioni di dollari.

 

Con le modeste risorse di cui disponiamo si può certamente gestire il partito transnazionale (senza iscritti non italiani) che ha in mente Maurizio Turco, Matteo Angioli, Rita Bernardini e Sergio D’Elia, che hanno la grande ambizione di convocare il terzo convegno internazionale sul diritto alla conoscenza, di raccogliere l’adesione alla mozione di qualche altro comune italiano e, se ho ben capito, di portare avanti qualche iniziativa sull’amnistia e la giustizia, ma spero che i compagni Lorenzo, Gianfranco e Marco (Cappato), abbiano qualche ambizione in più.

 

In definitiva, il partito transnazionale non esiste da molti lustri e non vi sono idee sufficientemente robuste, almeno a mia conoscenza, per riuscire a fare quello che non ha potuto fare Marco Pannella.

 

È necessario e possibile costituire un nuovo soggetto radicale di tipo federativo capace di fare battaglie transnazionali

 

Viceversa, esistono e svolgono attività politica e statutaria, anche con alcuni successi, solo i soggetti costituenti del PRNTT, sia quelli “tematici” come Nessuno tocchi Caino, Non c’è pace senza giustizia e l’associazione Luca Coscioni, sia Radicali italiani.

 

Come ho già accennato, grazie al segretario Riccardo Magi, al tesoriere Valerio Federico e al presidente Marco Cappato e anche all’iniziativa elettorale a Roma e Milano della lista “radicali”, che Marco avrebbe salutato positivamente grazie al suo sano pragmatismo, le sedi radicali si riempiono persino di giovani e di facce sconosciute, si fanno tavoli nelle strade e molti hanno ripreso il gusto di misurarsi con la nonviolenza.

 

Ma la cosa più importante è rappresentata dal fatto che queste organizzazioni costituenti, anche quelle più propriamente italiane, sono le uniche che hanno avviato iniziative transnazionali, di cui cito solo alcune: la promozione di politiche comunitarie per governare i flussi migratori di Radicali italiani, basata su un robusto documento di analisi del fenomeno a livello europeo che sarà pronto fra un paio di settimane, le iniziative internazionali sulla libertà di ricerca e di autodeterminazione dell’associazione Luca Coscioni, la campagna “legalizziamo” per la riforma delle politiche dell’ONU e della UE in materia di droghe, promossa sempre dall’associazione Coscioni e da radicali italiani e la campagna contro le mutilazioni genitali femminili di Non c’è pace senza giustizia.

 

È possibile, di conseguenza, concepire un nuovo assetto politico e organizzativo della “galassia radicale” che veda il rafforzamento di queste e altre iniziative transnazionali condotte dai soggetti costituenti, coordinate dal soggetto federatore che, ancorché non transnazionale per l’assenza di un numero adeguato di iscritti e di sedi fuori dall’Italia, sappia gestire poche ma ambiziose campagne politiche transnazionali.

 

Mi chiedo se questo nuovo soggetto radicale - la “holding” della galassia radicale - debba prevedere ancora iscrizioni individuali, ma sicuramente deve abbandonare l’illusione di caratterizzarsi per le iscrizioni di non italiani (anche se devono essere possibili, come è sempre stato sin dalle origini) e deve dotarsi di uno statuto di tipo federativo che, come ricorda Lorenzo Strik Lievers, preveda un congresso per delegati.

 

È una proposta che butto nel piatto della discussione che, come auspicano in molti, precederà la convocazione della seconda sessione del 40° congresso radicale.

 

Ritengo, tuttavia, improbabile che questo nuovo soggetto che ho appena prefigurato possa realizzare limitate, anche se ambizione campagna politiche transnazionali, senza il contributo fattivo di Emma Bonino.

 

Marco ha cambiato la cultura politica dell’Italia

 

Per finire, risulta evidente dalle considerazioni che ho scritto, che il mio giudizio sulle iniziative di Marco Pannella non è sempre positivo, perché ci sono moltissime battaglie - la maggioranza - che ho condiviso per molti decenni (non è il caso di elencarle), assumendo anche responsabilità statutarie e operative, e tra queste proprio la costruzione del partito radicale transnazionale, ed altre che non ho condiviso, dichiarandolo pubblicamente, ma senza creare inutili scontri congressuali finché Marco ha esercitato a pieno diritto la sua leadership carismatica, nella consapevolezza che in ogni caso servivano a mettere a fuoco questioni di massima importanza, anche se con obiettivi sbagliati. Tra queste la battaglia per l’amnistia, prima e non dopo la riforma della giustizia (sulle riserve circa la campagna contro la fame nel mondo ho parlato fin troppo).

 

Ho condiviso con Marco e con profonda convinzione anche i momenti più difficili, come quello del tratto di strada con Berlusconi, che portò alla non iscrizione di Gianfranco Spadaccia, per non capire successivamente perché lo stesso Marco non riuscisse a riconoscere in Matteo Renzi la stessa carica eversiva nei confronti di quello che lui chiamava partitocrazia e regime.

 

E su questo sono in pieno accordo con Lorenzo quando scrive che “l’interlocutore necessario per noi diventa in primo luogo Renzi; non foss’altro che per il fatto che oggi l’alternativa si prospetta fra Renzi e i grillini. Piaccia o no, le speranze di sopravvivenza e rilancio di una prospettiva federalista europea e della stessa UE passano qui ed ora, in Italia, attraverso il successo di Renzi e del suo governo”.

 

Aggiungo che sarebbe una iattura per l’intero Paese se nel referendum costituzionale vincessero i no, perché si fermerebbe per almeno un lustro quel processo di riforme finalmente strutturali, soprattutto del mercato del lavoro, avviate per la prima volta da Renzi.

 

Sono stato ancora meno d’accordo con Marco nel sostenere che le nostre continue sconfitte, anche elettorali (ricordo lo 0,40% in Basilicata, con in lista anche Emma Bonino), dipendessero dalla mancata conoscenza di quello che proponevamo e non proprio da quello che proponevamo.

 

Tutto ciò non mi ha impedito di restare per 49 anni nel partito, di sostenerlo non solo finanziariamente, ma anche riconoscendo a Marco, in ogni caso la sua inconfrontabile capacità di promuovere le tante battaglie e posizioni politiche lungimiranti e scomode, con una caratura liberale unica nel nostro Paese.

 

Probabilmente il maggiore merito storico di Marco è costituito dalla sua capacità di modificare profondamente la cultura politica dell’Italia - l’insieme delle idee e dei valor politici presenti nei membri di una società - rappresentando con i suoi comportamenti, per fortuna scandalosi, cos’è l’autentico pensiero liberale, coniugato per la prima volta con la nonviolenza politica, diversa da quella di Capitini. Ha smascherato sia i falsi laici e liberali, sia una sinistra che sacrificava i diritti civili delle persone in nome degli interessi di partito, percorrendo con la stessa perizia e ostinazione i marciapiedi e i Palazzi della politica. Ed era chiaro a Marco di cosa si stesse parlando: “la cultura laica è la cultura della tolleranza, della legge come regola per tutti, a cominciare dai potenti e dai sovrani; ed è una cultura politica, d'attacco, non agnostica nei confronti della vita civile. Le sembra una cultura così diffusa?

 

Infine, non sono stato con Pannella quando ha tentato d’infangare la storia politica e personale di Emma Bonino, nell’ultimo anno della sua vita nel quale mi sembra – lo dico con la dovuta prudenza – aveva perso parte della sua travolgente lucidità, come accade a tutti gli umani quando invecchiano.

 

Penso, alla fine di questa lunga sbrodolata, che il modo migliore, oggi, per stare con Marco non è santificarlo, per poter vendere i santini come vorrebbe fare alcuni nel loro vuoto di pensiero politico, ma semplicemente porci obiettivi politici più grandi di noi come individui e non mollare un solo attimo per attuarli come collettivo politico.

 

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