"Segmenti di teoria e prassi radicale", Angiolo Bandinelli

12-06-2015

Quando i radicali inventarono "l'unità laica delle forze". Il Partito dell’alternativa? Il suo statuto è già pronto

La più importante e storica iniziativa dei giovani pannelliani, il gruppo che assunse la responsabilità del partito radicale nel 1962 dopo il fallimento e la conseguente diaspora della sua prima classe dirigente (quella, non dimentichiamolo, dei Mario Pannunzio e dei Niccolò Carandini, dei Mario Ferrara, Bruno Villabruna, Ernesto Rossi, Eugenio Scalfari, ecc.)? I più risponderebbero la campagna per il divorzio. Altri preferirebbero ricordare l'aborto, altri ancora l'obiezione di coscienza: non c'è che da scegliere. Io non avrei molte esitazioni a rispondere che fu, piuttosto, l'approvazione del nuovo Statuto del partito, al congresso di Bologna del 1967.

Quei giovani vollero che il congresso fosse, nella numerazione progressiva, il “terzo”. Era il primo della gestione pannelliana, ma a loro premeva sottolineare la continuità anche giuridica con la formazione politica nata nel 1955 che, nella sua breve vita, di congressi ne aveva fatti due. Parteciparono ai tre giorni di dibattito, ospiti di una semiperiferica sala concessa dalla CGIL bolognese, una ottantina di persone. Nonostante l'esiguità delle presenze e la sicuramente modesta rappresentatività, fu un congresso fondamentale. Fatta salva la continuità giuridica, lo Statuto che vi venne approvato fu un segno inequivocabile della rottura ideale tra la concezione sostanzialmete ancora liberale del partito di Pannunzio e quella radicale della inedita formazione guidata da Marco Pannella. Lo avevano elaborato Sergio Stanzani, Angiolo Bandinelli e Silvio Pergameno, sotto la continua supervisione e guida del giovane leader, ma raccoglieva e ordinava tesi, indicazioni e suggestioni che venivano da lontano e da radici diverse. Era uno statuto consapevolmente "flessibile", aperto, ma aveva l'ambizione di dare salda forma istituzionale a quel progetto di “partito nuovo” che assieme al programma per una “politica nuova” avrebbe dovuto distinguere il Partito Radicale fin dalle sue origini, la scissione - nel 1955 - dal Partito Liberale Italiano. Come subito venne denunciato dalla "sinistra radicale" che faceva capo a Pannella, la “politica nuova” venne almeno abbozzata, il “partito nuovo” invece non era stato nemmeno concepito.

Il testo approvato a Bologna è rimasto - come progetto - immodificato nel suo spirito di fondo, anche se ha visto successive redazioni della cui storia hanno dato utili resoconti Lorenza Ponzoni e Massimo Gusso. È ancora, formalmente, in vigore, tuttavia è poco o nulla conosciuto, e soprattutto molto spesso viene frainteso o distorto, anche in casa radicale. Eppure è un documento fondamentale, perché costituì un vero e proprio “manifesto”, il puntuale programma di una forza politica nata esclusivamente con l'obiettivo di "elaborare tesi valide per tutta la sinistra, nella prospettiva della costruzione di una società laica, chiamando i militanti radicali o della sinistra a elaborare direttamente le tesi per la gestione del partito; tutto ciò in vista di una prospettiva politica: l’unità delle sinistre e la costruzione di un’alternativa democratica e socialista".

In questi recenti, ultimi anni di frustrazioni e fallimenti subìti nello sforzo di trovare e realizzare soggetti politici adeguati ai tempi e alle situazioni nuove e difficilissime che incombono sul nostro paese (e non solo) quello statuto-manifesto offre soluzioni ancora validamente perseguibili se solo lo si voglia. Probabilmente il problema è proprio questo: non si vuole trovare soluzioni all'altezza delle necessità. Nel paese proliferano partiti frammentari, divisi al loro interno, autoreferenziali, incapaci di un progetto di governo unitario e credibile; lo Statuto del Partito radicale può dunque restare, più o meno intonso, in qualche archivio.

La prima, saliente caratteristica del documento era l'impostazione nettamente federalista: gli articoli da 2.2 a 3.1 fissavano le norme per la costituzione di associazioni territoriali e di partiti regionali, ma soprattutto aprivano alla possibilità che associazioni non-radicali si federassero al partito. Veniva in tal modo prefigurato un ampio spettro di varianti associazionistiche, tale da consentire - anzi richiedere - la stabile cooperazione, attorno a un progetto unitario, di realtà politiche di diversa estrazione e cultura. In un momento storico nel quale i partiti già tendevano all'accentramento verticistico e ogni tentativo di mettere in atto presenze autonomistiche era duramente represso, quel federalismo programmatico costituiva una novità rivoluzionaria. Con la sua impostazione, cercava di dare forma istituzionale a una intuizione di Franco Roccella che anni prima, in sede di movimento universitario, aveva auspicato - quale strumento di valida opposizione alla dominante Democrazia Cristiana - non la "unità delle forze laiche" ma la "unità laica delle forze": e le forze che, secondo i nuovi radicali, avrebbero dovuto incontrarsi operativamente in questa unità "laica" potevano essere associazioni tematiche, territoriali, culturali, laiche oppure cattoliche e di credenti, ma anche veri e propri partiti o soggetti politici (e sindacali) non radicali. Il "partito nuovo" prefigurato dallo statuto del 1967 si ispirava insomma, largamente, al partito laburista britannico, che appunto raggruppava assieme soggetti politici, sindacali, sociali e culturali.

Come il partito britannico, anche il partito radicale del nuovo statuto avrebbe avuto un congresso annuale, da tenersi a data fissa, nel quale individuare - e codificare in una mozione - le decisioni operative per l'anno successivo. La formula del congresso annuale, che deliberi con una solida e larga maggioranza solo su una o alcune pochissime iniziative, è ancor oggi, in un contesto sicuramente diverso da quello nel quale lo statuto radicale del 1967 venne elaborato e approvato, la sola valida per ogni tentativo, o sforzo, di raccogliere su un programma comune forze politiche altrimenti non disposte a sciogliersi in una formazione unica. Grazie a questa formula ciascuno dei soggetti aderenti mantiene una propria identità, viene chiamato solamente a condividere uno specifico progetto operativo "a tempo".

In Gran Bretagna il modello ha funzionato, in Italia non venne mai realizzato. Molti hanno per questo proclamato il fallimento del progetto nel suo complesso. La vicenda va giudicata con un altro metro. Il Grande Partito alternativo della "unità laica delle forze" non vide la luce, ma lo Statuto approvato a Bologna è la forte testimonianza del disegno di fondo coltivato da quei radicali: mettere in moto un processo che portasse ad una bipolarizzazione democratica della vita politica italiana. Il PCI schivò questa formula tendenzialmente ma decisamente bipartitica, preferendole la nota linea di sostanziale accordo con la DC, sviluppato con ferma coerenza e il conseguente abbandono ed anzi ostracismo degli altri partiti laici, tra cui anche il partito socialista, fino allo storico compromesso berlingueriano che giustamente fece parlare di "monopartitismo imperfetto".

Lo statuto federale del 1967 scardinava il principio (machiavelliano?) del potere indivisibile affidato ad una classe dirigente strutturalmente irresponsabile per mancanza di "chek and balance" e inevitabilmente portata, per istinto di difesa, alla cooptazione dei suoi membri; ma insieme imponeva, secondo il modello federale americano, la consapevole cessione alla dirigenza centrale di alcuni poteri ben definiti ma forti, quelli (e solo quelli) conseguenti alla gestione della mozione annuale.

Non realizzatasi la speranza del partito della alternativa, lo statuto radicale venne via via perdendo la sua caratteristica di manifesto politico e fu successivamente interpretato come una anodina impalcatura di sostegno per tanti piccoli partitini regionali o di associazioni locali, senza più la spinta aggregante del progetto originario, quello presentato a Bologna. Ovviamente, questa è solo una sua caricatura. Anche all'interno del Partito Radicale (o di Radicali italiani, che dello statuto del 1967 ritiene di aver mantenuto i tratti essenziali) prevale oggi tale concezione del meccanismo federale, banale, priva di energia e di una aggregante visione prospettica, assolutamente opposta a quella originaria: le associazioni locali che si sono via via realizzate si sono dimostrate espressione di un localismo insignificante, ognuna di esse ritiene di avere diritto a perseguire una sua linea politica, ritagliata secondo esigenze e richieste dettate dalla sua territorialità. È un localismo centrifugo, persino pernicioso, che finisce con l'ostacolare gli organi nazionali nel loro sforzo di interpretazione e realizzazione della mozione congressuale. Non è casuale che le ultime mozioni risultino essere un coacervo di iniziative e progetti accatastati con il solo visibile intento di impedire l'individuazione di un disegno politico unico e unificante, capace di esprimere la volontà di alternativa che i giovani pannelliani si sforzarono di modellare nel lontano congresso bolognese. .

Nella durata, i radicali riuscirono però a realizzare almeno in parte l'ambizioso progetto alternativo; fu quando misero in moto la macchina referendaria, strappandola alla partitocrazia. I radicali hanno indetto, in un lungo arco di tempo, una serie di referendum con i quali sono riusciti a dividere il paese lungo faglie non partitiche ed anzi spesso antipartitiche, su un cammino intrinsecamente duale e bipolare: nel sistema referendario, il cittadino aveva dinanzi a se due sole scelte, il "si" o il "no". In quelle occasioni, l'Italia ha conosciuto momenti di bipolarismo, costruiti - e questo è l'aspetto forse più importante - intorno a temi di enorme valore politico. Alcuni di quei referendum vinsero, altri furono sconfitti o messi in mora da sentenze della Corte Costituzionale, ossequiente al regime dei partiti. Ma in ogni caso, in ciascuna di quelle occasioni, veniva realizzato un disegno nettamente bipolare, pragmatico e non ideologico. Le campagne referendarie, non solo quelle per il divorzio e l'aborto, hanno rappresentato per mezzo secolo le uniche vere sconfitte del sistema partitocratico. Erano indette da un partitino che alle elezioni strappava più o meno il due per cento dei voti: non era, questa, una contraddizione, la logica referendaria era diversa da quelle elettorale, anzi consapevolmente vi si opponeva, scavalcandola in nome di una compiuta democrazia bipolare. Non c'è storico, politologo o politico che abbia mai fatto una riflessione di questo tipo, per trarne le dovute conseguenze operative.

Ma la grande forza innovatrice - rivoluzionante - dello statuto del 1967 non si esaurisce qui. Vi torneremo sopra.

da Il Garantista