"L’anarchismo tra ethos e progetto", Pietro Adamo

L'anarchismo tra ethos e progetto

di Pietro Adamo


1. La bandiera nera sventola ancora
Quando nel maggio 1968 le bandiere nere hanno fatto una timida ricomparsa alla testa dei cortei parigini, non sono stati in pochi, compresi buona parte dei membri del movimento anarchico, a meravigliarsene. A parte alcune frange situazioniste, l’anarchismo era divenuto elegia e ricordo nostalgico, per alcuni un modello di incontaminata schiettezza rivoluzionaria, lontano però dalle necessità del confronto con la società tardocapitalista: certamente puro, e perciò stesso desueto. La sollevazione rivoluzionaria spagnola si colorava di alone mitico: nei primi anni Sessanta George Woodocock scrisse la sua storia dell’anarchismo componendo, come egli stesso ha ammesso un paio di decenni dopo, una «trenodia» (1).

Dopo il ‘68 l’anarchismo ha riacquistato visibilità e pregnanza, sia pure in modi e contesti differenti dal passato: nelle discussioni degli accademici e dei rappresentanti del pensiero «speculativo» da un lato, e nelle sperimentazioni delle frange movimentiste dell’underground dall’altro. Potrei citare una serie di titoli e di autori influenti, noti e ampiamente discussi: da Daniel Cohn-Bendit a Paul Feyerabend, da Robert Nozick a Robert Paul Woolf, da Murray Bookchin a Hakim Bey. Oppure potrei citare migliaia di esempi di comuni, collettivi, centri sociali, scuole autogestite, e così via: un suggestivo cosmo di microsperimentazioni. Nel contempo, l’anarchismo non ha certamente riacquistato le posizioni perdute, sia come progetto pratico di modellamento della società sia come presenza forte nell’immaginario d’Occidente. L’esplosione sessantottina è stata contemporaneamente il culmine di una crisi quasi secolare e il segnale di un nuovo inizio (2). E per certi versi questo trauma si è presentato anche nella forma del passaggio tra un anarchismo fondato sul progetto a un anarchismo fondato sull’ethos. Nelle pagine che seguono cercherò di illustrare il significato di questi due termini e il modo in cui essi si rapportano all’interno dell’anarchismo stesso.

2. Libertari del ventesimo secolo
Nel 1935 Carlo Rosselli suggerì a Camillo Berneri che, per divenire «libertari del ventesimo secolo», era necessario rendersi conto che «le forme e le formule che si addicevano agli artigiani del Giura o ai mugiki della Russia o ai braccianti del beneventano» non erano adeguati alla società industriale che si andava costruendo. Le critiche di Rosselli non erano particolarmente centrate (soprattutto se rivolte al «revisionista» Berneri), ma per certi versi restano significative (3). Di fatto, l’obiettivo polemico dei giellisti libertari era il complesso della specifica progettualità anarchica nella sfera del mutamento politico, così come aveva preso forma nella seconda metà del secolo diciannovesimo: la necessità della rigenerazione sociale attraverso la rivoluzione; l’esclusione di ogni ipotesi gradualista; la soluzione comunista; il ruolo privilegiato dei ceti operai e contadini, e così via.

Pur senza semplificare all’eccesso, e senza dimenticare le differenze quasi fisiologiche all’interno del movimento, all’epoca di Rosselli la maggior parte dei militanti, in Europa e in America, era sostanzialmente ancorata a questo modello progettuale, legato al contesto del pieno sviluppo della rivoluzione industriale, ovvero allo sfruttamento programmato su una scala mai esperita in precedenza e alla conseguente intensificazione dello scontro sociale. Nel 1908 Luigi Galleani ne aveva dato una formulazione paradigmatica, all’interno della contrapposizione tra «socialismo collettivista» e «comunismo anarchico»: «Così alla nuda resistenza passiva e civile raccomandata con tanto fervore dai socialisti, gli anarchici preferiscono il boicottaggio, il sabotaggio, e, per le necessità stesse della lotta, i tentativi di espropriazione immediata e parziale, le rivolte individuali ed insurrezionali che raccolgono tanto orrore di anatemi socialisti, ma che esercitando sulla massa la più spregiudicata delle suggestioni, si risolvono in un vantaggio morale di altissimo valore» (4).

Il «progetto» anarchico di ricostruzione della società, che passasse per l’affermazione sociale della Ragione (Godwin), per la costruzione dell’autogestione operaia (Proudhon), per la rivoluzione comunista (Bakunin) o per il dispiegamento razionale della spontaneità autoorganizzativa (Kropotkin), si presentava comunque come il risultato di un’analisi culturale e sociale in chiave illuminista, materialista e positivista, fondata sulla certezza di poter decodificare le leggi costitutive del complesso sociale e di poter realizzare nella storia una verità al tempo stesso ideale e reale. Storicamente questo progetto si è sviluppato nei pensatori appartenenti al periodo «classico» dell’anarchismo, compreso tra i decenni centrali dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo (5). «La gran disgrazia è che un’enorme quantità di leggi naturali», si lamentava Bakunin, «già constatate come tali dalla scienza, rimangono sconosciute alle masse popolari, grazie alla cura dei governi». Lysander Spooner apriva il suo trattato teoricamente più rilevante affermando illuministicamente l’esistenza di una «scienza della giustizia» fondata sulla ragione e relativa a ogni aspetto della vita umana: «Solo questa scienza può dire all’uomo cosa può e cosa non può fare; cosa può e cosa non può avere; cosa può e cosa non può dire senza violare i diritti degli altri». E il geografo Kropotkin riassunse in modo emblematico l’approccio tardopositivista all’anarchismo:

L’Anarchia è una concezione dell’universo, basata sull’interpretazione meccanica dei fenomeni, che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita della società. Il suo metodo è quello delle scienze naturali; e secondo questo metodo ogni conclusione scientifica dev’essere verificata. La sua tendenza è di fondare una filosofia sintetica, che si estende a tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici, politici e morali [...]. (6)

Non è quindi soprendente che gli autori del «progetto» guardassero ai gruppi libertari e anarchici sia come portatori della verità sociale sia come l’esplicazione storica della verità stessa. Il processo rivoluzionario veniva a configurarsi come la manifestazione nella storia e nella società di una particolare verità scientifica, che avrebbe anche avuto, per la sua qualità di assolutezza, la funzione di porre fine alla storia stessa. L’anarchia – la società pienamente anarchica – diveniva un traguardo realizzabile concretamente, più o meno nell’immediato. L’azione politica, nel senso in cui la riassumeva Galleani, si calava nel contesto sociale del tardo Ottocento e nel contempo, in virtù della sua consequenzialità da un’interpretazione «scientifica» della società, si universalizzava e si trasformava in una specie di norma sempiterna.

Questa strutturazione positivistica e quasi «scientista» del pensiero e dell’azione degli anarchici andò incontro a una crisi epocale nei primi decenni del Novecento, quando le mutazioni delle società occidentali misero seriamente in discussione i presupposti di questo «progetto». L’ascesa dei totalitarismi, il riassorbimento delle spinte ribellistiche classe operaia a opera delle élite e dei gruppi riformisti, la scomparsa del mondo contadino e l’avvento della tecnocrazia vibrarono un duro colpo ai fondamenti – l’orizzonte rivoluzionario, la centralità delle classi operaie, ecc. – su cui i pensatori «classici» avevano eretto il loro edificio. In questo periodo di crisi prese forma una rilettura dell’anarchismo che prescindeva dal modello ottocentesco e che, anzi, proprio sul sostanziale rifiuto di questo modello costruiva una prospettiva nuova, una visione imperniata non sul progetto anarchico, ma piuttosto su un più ampio ethos dell’anarchia (7). I più interessanti espositori di questa «revisione» furono due italiani, Errico Malatesta e Camillo Berneri.

3. Anarchismo barocco
Il progetto classico era fondato su una serie di analisi e di interpretazioni profondamente critiche, e insieme percettive, dei principi che modellavano la vita sociale nel suo complesso: il ruolo coartante delle istituzioni positive, il soffocamento dell’individualità, l’organizzazione gerarchica delle interrelazioni sociali, e così via. Questa strumentazione teorica – in primis una pars destruens – era profondamente radicata in un ethos, in una griglia interpretativa di grande spessore e respiro, in una lettura complessiva della società occidentale in chiave di critica alla gerarchia e al dominio. Questo ethos non dipendeva tuttavia dall’analisi sociale e "scientifica" della realtà: ne era invece il presupposto e si fondava, in ultima analisi, su un preciso sistema di valori e di preferenze etiche. Le articolazioni della critica allo stato e alla religione in Bakunin, della rivalutazione della comunità in Kropotkin, del potenziamento dell’associazionismo operaio in Proudhon, dello svelamento dell’inganno democratico in Spooner, della disamina dei pericoli del socialismo di stato in Tucker, tanto per citare i maggiori, sono incomprensibili se non alla luce della pervicace insistenza sulla salvaguardia del singolo, inteso come nucleo primario della potenzialità umana e riferimento privilegiato dell’aspirazione alla libertà (senza aggettivi).

In un certo senso toccò a Malatesta e Berneri scoprire, in un momento storico estremamente critico per il movimento anarchico, un contrasto radicale tra ethos e progetto. I due non erano guidati da preoccupazioni identiche, sebbene entrambi mirassero a ricostruire nuove linee d’azione politica per gli anarchici; non a caso entrambi cominciarono a dar forma a istanze postclassiche a partire dagli anni Venti, mentre in Italia si affermava il fascismo, sconvolgendo ogni piano di rivoluzione elaborato dalla sinistra. Malatesta giunse a concettualizzare l’esistenza di questo contrasto in termini di aporia a partire dal dibattito interno nei gruppi libertari, finendo poi per trarne conclusioni anche nell’analisi della natura del movimento libertario. Berneri compì forse il tragitto inverso, probabilmente ispirandosi all’impostazione del problema data da Malatesta stesso: per lui il dato essenziale era la marginalizzazione dell’anarchismo come opzione politica, una situazione da cui era possibile uscire solo con una «revisione» del rapporto tra ethos e progetto (8).

Come è noto, il percorso di Malatesta cominciò nel solco bakuninista. Nel 1922, in polemica con Enzo Martucci, il quale aveva ricordato il discorso da lui pronunciato nel 1876 a Berna, nel corso dell’ottavo congresso dell’Internazionale («non esiste un patto sociale, ma una legge sociale»), Malatesta dichiarò di essersi presto sottratto «all’influenza dei sociologhi organicisti e dei pregiudizi scientificisti». Qualche mese prima aveva già precisato il suo giudizio sullo «scientificismo [...] prevalente nella seconda metà del secolo decimonono», smascherandone l’impostazione ideologica: all’epoca si era prodotta una tendenza a considerare come verità scientifiche, cioè leggi naturali, e quindi necessarie e fatali, quello che non era che il concetto, corrispondente ai diversi interessi ed alle diverse aspirazioni, che ciascuno si faceva della giustizia, del progresso, ecc., da cui nacquero il ‘socialismo scientifico’ e l’‘anarchismo scientifico’, che, quantunque professati dai nostri maggiori, a me sono sempre sembrate concezioni barocche, confondenti insieme cose e concetti per natura loro distinti. (9)

A questa concezione «barocca» dell’anarchismo, in cui rientravano le «oscure e contestabili analogie tra la vita sociale e certi fatti (o supposti tali) del mondo fisico e biologico» tracciate dal «maggiore» Kropotkin, Malatesta contrapponeva una concezione fallibile e relativistica della conoscenza: «So benissimo che le prove sono cosa relativa e possono, e sono infatti, continuamente superate ed annullate da altri fatti provati; e quindi credo che il dubbio debba essere la posizione mentale di chiunque aspira ad avvicinarsi sempre più alla verità, o almeno a quel tanto di verità che è possibile raggiungere». Negli scritti e nei programmi di Malatesta questo fallibilismo epistemologico prendeva l’aspetto di un umanesimo volontaristico, in cui la libera decisione degli uomini diveniva un elemento maggiormente determinante (nella sua intrinseca indeterminatezza) delle forze della natura: «Per noi», aveva già scritto nel 1920, «il fattore principale che determina il senso dell’evoluzione sociale è la volontà umana». Di conseguenza l’anarchia, lungi dal rivelarsi destino o fatalità storica, si configurava invece come il prodotto di scelte umane, ovvero come una costruzione culturale: «L’anarchia», dichiarava nel 1925, «è un’aspirazione umana, che non è fondata sopra nessuna vera o supposta necessità naturale, e che potrà realizzarsi e non realizzarsi secondo la volontà umana. [Essa] non può essere confusa, senza cadere nell’assurdo, né con la scienza, né con un qualsiasi sistema filosofico» (10).

A partire da questa confutazione del «barocco» ottocentesco, Malatesta propose una concezione dell’anarchia quale «faro ideale che guidi i nostri passi», lume regolativo, «che potrebbe anche non realizzarsi mai, così come non si raggiunge mai la linea dell’orizzonte che si allontana di tanto di quanto uno si avvicina verso di essa», distinguendola dall’anarchismo, «metodo di vita e di lotta», che finiva però per configurarsi, in quest’ottica volontaristica e relativistica, ideologia possibilista, antidogmatica e quasi antidottrinale. «Forse è vero che una certa strettezza di idee, un certo dommatismo», notava nel 1926, «si possono annoverare tra le ragioni [...] che hanno impedito un più grande rapido sviluppo del nostro movimento». Dall’interno di quest’ultimo, e senza stancarsi di predicare incessantemente il verbo rivoluzionario, Malatesta ne ridisegnò quindi gli obiettivi sostituendo al dogmatismo positivista un possibilismo pluralista: «Io credo che non vi sia ‘una soluzione’ ai problemi sociali, ma mille soluzioni diverse e variabili, come è diversa e variabile, nel tempo e nello spazio, la vita sociale» (11).

Al mito della rivoluzione violenta subentrò una concezione gradualista del cambiamento in senso anarchico; ben conscio dei pericoli delle «rivoluzioni» (come dimostravano bolscevismo e fascismo), Malatesta insistette su un’azione politica che puntasse a «realizzare quanto più di anarchia è possibile in mezzo a gente che non è anarchica» (12). La stessa identica politica andava seguita nel caso del verificarsi dell’evento «rivoluzione», poiché esso non sarebbe certo stato una manifestazione dell’anarchia ma solo uno stadio possibile del progresso verso di essa. In quanto al comunismo, Malatesta continuò a definirsi sino alla fine della vita un anarco-comunista, intendendo con ciò solo ed esclusivamente l’espressione di una sua preferenza individuale. Anzi, sin dagli inizi degli anni Venti egli insistette sulla necessità di intendere l’anarchia come sistema di economia mista: «Comunista anarchico», scriveva nel 1922, «volendo cioè che il comunismo sia il risultato naturale, e liberamente accettato, dei constatati vantaggi economici e dello sviluppo dello spirito di solidarietà, dovrei necessariamente rispettare la coesistenza di forme varie di organizzazione. Evidentemente, non vi sarebbe libertà quando non vi fosse possibilità di scelta». E nel 1929 sposava apertamente un pragmatismo sperimentalista e antidogmatico che scartava a priori l’ipotesi di una soluzione «comunista» universale e coartata:

In conclusione a me sembra che nessun sistema possa essere vitale e liberare realmente l’umanità dall’atavico servaggio, se non è il frutto di una libera evoluzione. Le società umane [...] debbono essere il risultato dei bisogni e delle volontà, concorrenti e contrastanti, di tutti i loro membri che, provando e riprovando, trovano le istituzioni che in un dato momento sono le migliori possibili e le sviluppano e cambiano a misura che cambiano le circostanze e le volontà. Si può dunque preferire il comunismo, o l’individualismo, o il collettivismo, o qualsiasi altro immaginabile sistema, e lavorare con la propaganda e l’esempio al trionfo delle proprie aspirazioni; ma bisogna guardarsi bene, sotto pena di un sicuro disastro, dal pretendere che il proprio sistema sia il sistema unico e infallibile, buono per tutti gli uomini e in tutti i tempi, e che si debba far trionfare altrimenti che con la persuasione che viene dall’evidenza dei fatti. (13)

Orfano dell’aggancio alle ideologie positiviste, Malatesta trovò una base accettabile di questa versione postpositivista dell’anarchismo nel volontarismo etico, e in particolare nella «morale anarchica» esposta da E. Armand. L’italiano negò che si trattasse di un’etica specificamente «individualista»: era «anarchica in generale, anzi più che anarchica, morale largamente umana, perché fondata su quei sentimenti umani che rendono desiderabile e possibile l’anarchia» (14). Armand aveva identificato il nucleo dell’aspirazione «morale e umana a un tempo [...] nell’individuo che nega l’autorità e il suo corollario economico [e] che tende alla realizzazione d’un tipo nuovo: l’uomo che non sente alcun bisogno di regolamentazione o costrizione esteriore, dappoiché egli possiede sufficiente potenza volitiva per determinare i suoi bisogni personali e per conservare la propria potenza di resistenza individuale» (15). E Malatesta, sempre pronto a denunciare la dottrina in nome del pragmatismo, precisò che anche questo tipo di morale rappresentava comunque solo un’«aspirazione» (stesso termine usato nella traduzione italiana di Armand), o, per meglio dire, un «ideale» regolativo.

4. I liberali del socialismo
L’intera opera dell’ultimo Malatesta (dalla fine della prima guerra mondiale in poi) era stata interamente costruita su un presupposto, che molti suoi compagni non intendevano né, forse, potevano accettare e che lo stesso Malatesta non esplicitò, se non in casi sporadici. Lo fece però, e ripetutamente, uno dei suoi più assidui seguaci: «Noi siamo sprovvisti di coscienza politica», dichiarò Berneri già nel 1922 alludendo agli anarchici, «nel senso che non abbiamo consapevolezza dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra letteratura di propaganda». Occorreva un «nuovo abito mentale», un nuovo «anarchismo critico», che «senza essere scettico, non s’accontenti delle verità acquisite, delle formule sempliciste, un anarchismo idealista e insieme realista, un anarchismo, insomma, che innesti verità nuove al tronco dei suoi rami fondamentali, sapendo potare i suoi vecchi rami». Questi ultimi andavano identificati nel «pedante socialismo scientifico», nel «comunismo dottrinario chiuso nelle sue caselle aprioristiche» e in «tutte le altre ideologie cristallizzate». Negli anni successivi Berneri approfondì sempre più la sua critica, che lui stesso non si peritava di definire apertamente revisionista («ché il verbo dei maestri è da conoscersi e da intendersi») e che lo condannò a un certo isolamento: "Io sono un anarchico sui generis», scriveva a Libero Battistelli sul finire degli anni venti, «tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi. [...] La generalità degli anarchici è atea e io sono agnostico, è comunista e io sono liberista (cioè sono per la liberta concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali») (16).

Il fascismo, il bolscevismo e l’esperienza dell’esilio lo spinsero a un’analisi impietosa del dogmatismo imperante tra gli stessi suoi compagni. Egli individuò soprattutto in tre sfere la prevalenza di formule dottrinarie: dal punto di vista dell’analisi sociale l’anarchismo «era imprigionato nel dualismo proletariato-borghesia, mentre il proletariato tipico è minoranza ed è fiacco e disorientato, e vi sono vari ceti intermedi, ben più importanti e combattivi». Inoltre il «fatto economico» veniva sopravvalutato, conducendo l’anarchismo a presentarsi come «comunista a ogni costo». Infine, lo schematico rifiuto di entrare sul terreno concreto e immediato della politica e di misurarsi con le altre forze sul terreno delle opzioni pratiche e praticabili nell’immediato marginalizzava irrimediabilmente il movimento: «Chiuso nell’intransigenza assoluta di fronte alla vita politica, l’anarchismo puro è fuori dal tempo e dallo spazio, ideologia categorica, religione e setta. Fuori dalla vita parlamentare, fuori da quella delle amministrazioni comunali e provinciali, non ha saputo e voluto condurre delle battaglie di dettaglio, suscitanti, volta a volta, consensi; non ha saputo agitare problemi interessanti grande parte dei cittadini». «La politica», concludeva, «è calcolo e creazione di forze realizzanti un’approssimazione alla realtà al sistema ideale, mediante formule di agitazione, di polarizzazione e di sistemazione, atte a essere agitanti, polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e politico» (17).

Berneri si auspicava così un «anarchismo attualista», capace di «economizzare» le sue forze in un costante confronto con la realtà concreta. In questo faceva sua la prospettiva possibilista e fallibilista di Malatesta, situando l’anarchismo nel contesto tipicamente novecentesco della «società aperta». Dissociandosi, come Malatesta, dallo «scientifismo libertario, residuo del determinismo materialista e del positivismo kropotkiniano», Berneri si rese conto che «nella nostra epoca lo spirito critico si è affilato e [...] la vita è complessa; per l’incrociarsi delle varie correnti ideologiche e il trasmutare di valori morali, per il poliedrico aspetto dei problemi di vita politica, economica, sociale» (18). Occorreva una nuova spregiudicatezza, avversa alle vacche sacre. Adattando il linguaggio dell’hegelismo italiano alle suggestioni del liberalismo radicale alla Salvemini, Berneri dichiarò che «la base del concetto di libertà» – fondamento a sua volta dell’anarchismo – stava nella «relatività», condannando nel contempo tutte le definizioni asssolutistiche del termine e proponendo un approccio alla società in termini di sviluppo concreto di molteplici e differenti libertà. La sua riflessione si orientò – con maggiore decisione intellettuale rispetto a Malatesta – nel risituamento dell’anarchismo nel campo del radicalismo liberale. Non soprendentemente, tra i suoi interlocutori più significativi troviamo Gobetti e Rosselli, cui Berneri propose – in tempi diversi ma con identica elaborazione – di considerare l’anarchismo come l’ala liberale del socialismo: gli anarchici, scrisse a Gobetti, sono in effetti «i liberali del socialismo» (19).

Fatta piazza pulita di ogni illusione comunista-bolscevica, Berneri auspicò quindi una «rivoluzione italiana», basata su «un indirizzo autonomista in politica e socialista-liberista in economia» e rinvigorita dall’esercizio costante e irrinunciabile dello spirito critico e antidottrinario. «L’anarchia è la filosofia della tolleranza", scrisse usando uno dei concetti chiave del liberalismo, e alludendo, in questo più vicino a Karl Popper che a John Locke, non tanto a un preciso meccanismo istituzionale quanto piuttosto a un modello sociale complessivo che valorizzava in senso epistemologico la differenza e il pluralismo.

Così la nostra concezione di assoluta libertà di stampa, di parola, d’insegnamento è basata sulla convinzione che non siano dannose varie e contrastanti correnti di pensiero, quando queste si correggano reciprocamente nel libero gioco della loro concorrenza. Anche nel campo economico, la nostra tolleranza si afferma, riguardo all’artigianato di fronte alla grande industria, alla piccola proprietà rurale di fronte all’agricoltura collettiva. Noi siamo i liberisti del socialismo appunto per questa fiducia nella possibilità di fusione degli estremi, di soluzione armonica degli opposti. E per il senso dinamico della vita, che alla rigida uniformità ci fa preferire l’infinita varietà e negli uomini e nelle cose. (20)

Come aveva fatto Malatesta, Berneri sostituì al determinismo e al materialismo ottocentesco un volontarismo storico-sociale e un umanesimo etico che investivano i presupposti stessi dell’attività degli anarchici. L’anarchia «diverrà se la vorremo, [...] se la costruiremo in noi e negli altri giorno per giorno con la propaganda e con l’azione»: si trattava in primis di uno stile di vita e di una preferenza etica. E se anche l’anarchismo si era sviluppato come «corrente socialista e movimento proletario», al suo interno l’umanesimo si era affermato «come preoccupazione individualista di garantire lo sviluppo della personalità e come comprensione, nel sogno di emancipazione sociale, di tutte le classi, di tutti i ceti, ossia di tutta l’umanità» (21).

5. La Riforma, l’individuo, l’anarchia
Anche nel caso di Berneri il progetto veniva infine ripiegato in un ethos,le cui caratteristiche erano presentate come il fondamento non solo del peculiare programma anarchico ottocentesco, ma di qualsiasi programma anarchico futuro. L’azione intellettuale di Malatesta e Berneri può esser letta come un tentativo di scrostare dall’ethos dell’anarchia il dottrinarismo e il dogmatismo prodotto dai miti razionalisti e illuministi del secolo precedente, lasciando a nudo un nucleo fondativo riassunto nell’idea di un’autonomia individuale che si dispiega in una pluralità di forme di vita e di sperimentazioni più diverse. Sia Berneri sia Malatesta tentarono – non sistematicamente, e più il primo che il secondo – di reinterpretare la storia stessa dell’anarchismo valorizzando in primo luogo questo ethos, presentando cioé i «maggiori» e i «maestri» in una chiave eterodossa (per lo meno secondo gli standard abituali): si veda per esempio il curioso e immaginativo tentativo di Berneri di far passare Bakunin per un simpatizzante del «liberalismo nord americano» e per un coerente nemico del comunismo.

La «revisione» dei due italiani si fondava quindi su una concettualizzazione dell’anarchismo come lente etico-politica del mondo, come modello di interpretazione della società e della storia, in cui gli elementi che componevano il tessuto stesso della realtà venivano letti e giudicati attraverso il principio dell’autodeterminazione del singolo, del federalismo libertario e del pluralismo delle forme di vita. Nel contempo il «progetto», eliminate le sclerotizzazioni del classicismo ottocentesco positivista, materialista e comunista, assumeva contorni possibilisti e pragmatici, riflettendo non più specifiche dottrine sociali e politiche ma piuttosto una marcata consapevolezza fallibilista della complessità del reale. Prendendo a prestito una locuzione di Nico Berti, potremmo dire che l’ethos dell’anarchia era «contro la storia», mentre il progetto si poneva con decisione «dentro la storia» (22).

Se adottiamo questo punto di vista, risulta evidente che l’ethos cui facevano riferimento Berneri e Malatesta si era dispiegato nell’immaginario occidentale in modo complesso, non limitandosi semplicemente a plasmare il progetto classico, ma modellando anche esperienze storiche e intellettuali precedenti e contemporanee. Come ho cercato di dimostrare, esso si focalizzava sul principio dell’autonomia e dell’autodeterminazione dell’individuo: dobbiamo quindi cercare di comprendere in che modo queste categorie entrano nel linguaggio etico e politico dell’esperienza occidentale.

La tradizione romanica, le teorie giurisprudenziali e le filosofie di ascendenza classica hanno certamente fornito strumenti per definire la nozione di libertà civica (del cives) o per determinare un certo tipo di diritti (naturali, civili, legali, politici): nel Discours de la servitude volontarie di Etienne de La Boétie ne possiamo vedere i risultati, ispirati da una potente visione umanistica. Eppure nel Discours i riferimenti di La Boétie sono quelli della classicità: la Famiglia, la Proprietà, la Città, e così via. L’idea che l’individuo, in quanto individuo (e non in quanto cittadino, proprietario, capofamiglia), godesse di uno spazio privato, al di fuori della competenza di chicchessia, in cui usare liberamente ragione e passioni, mi pare comparire – in senso pregnante – in Martin Lutero.

E non sembri strano identificare nel fiancheggiatore dei principi, nel martello dei contadini e nel rigido avversario dell’eterodossia, uno dei progenitori dell’anarchismo. Il monaco benedettino non era certamente un libertario; e tuttavia, nella sua lotta contro il potere di Roma, creò immaginativamente l’idea di un singolo completamente autonomo, sganciato da qualsivoglia obbligazione nei confronti di chiesa, stato, società, famiglia, e così via, che trovava realizzazione e ragion d’essere in un rapporto peculiare con la divinità. Con lo scopo neanche tanto recondito di svuotare la pretesa della chiesa di Roma di essere l’unico tramite legittimo tra Dio e l’uomo, Lutero dichiarò che il singolo aveva obblighi solo nei confronti delle Scritture: e nell’ottica ermeneutica protestante ciò corrispondeva a innalzare la coscienza a giudice ultimo delle cose umane. Lutero riprese la concezione soteriologica agostiniana, usando però un linguaggio che traslava il diprezzo ontologico di Agostino per il mondo in un diprezzo per le relazioni temporali d’autorità e di gerarchia. Nella Libertà del cristiano scrisse cheun cristiano non ha bisogno di opere che lo giustifichino; e se non ha bisogno di alcuna opera, egli è certamente sciolto da tutti i comandamenti e leggi. E se è sciolto, è certamente libero. Questa è la libertà cristiana, la sola fede, la quale non fa che stiamo in ozio o facciamo il male; ma che non abbiamo bisogno di nessuna opera per ottenere pietà e beatitudine. (23)

In questa costruzione lessicale l’idea di libertà corrisponde allo scioglimento del singolo dagli obblighi tradizionali, ovvero alla sua autonomizzazione. Non che fosse questo lo scopo di Lutero, che ben presto si mise a perseguitare tutti coloro che da queste sue elaborazioni, e da quelle del tutto simili dei suoi seguaci in campo riformato, traevano la giustificazione di comportamenti trasgressivi, disobbedienti ed eterodossi. All’alba della modernità la teologia era un linguaggio universale, uno dei principali strumenti di legittimazione della pratica e della teoria nelle differenti sfere dell’azione umana. L’apologia dei poteri politici forti, i rapporti sociali gerarchici, la stessa struttura familiare si basavano su precise analogie tra l’ordine teo-cosmologico e le diverse forme di autorità terrena. Libertini, anabattisti e spiritualisti vari si impadronirono della retorica della liberazione dei riformati, imponendo slittamenti semantici e traslazioni di senso che portarono le implicazioni individualiste e antiautoritarie della soteriologia della Riforma negli ambiti del sociale e del politico.

È in questa peculiare concezione dell’autonomia che ritroviamo almeno una delle matrici più significative dell’ethos anarchico, quel porsi di fronte al mondo delle relazioni sociali terrene in chiave di critica del dominio e della gerarchia, in quanto principi che mettono in discussione la sovranità del singolo. Tra il Cinquecento e il Settecento i germi del protestantesimo più radicale penetrarono nella cultura europea anche nella forma complessa di ideologie libertarie e antiautoritarie.

Nella loro critica del «progetto» Malatesta e Berneri insisterono sulla centralità dell’idea dell’autodeterminazione dell'individuo e della necessità che una società anarchica si sviluppasse lungo linee fallibiliste, sperimentaliste e pluraliste. Proviamo quindi a seguire questi due percorsi nell'ambito della cultura del radicalismo protestante, tentando di precisare il senso in cui le dottrine in gioco abbiano preso aspetti e forme che ci permettono di identificarle come il primo stadio della formazione dell’ethos dell’anarchia.

6. Un tipo nuovo di uomo
In primo luogo, l’antinomianesimo. La dottrina ha attraversato la modernità con effetti dirompenti. I suoi primi sostenitori – si trattava di allievi di Lutero – pensavano che la sfera d’autonomia del singolo fosse tanto ampia da permettere al cristiano in stato di grazia di non obbedire alla legge morale, ovvero ai dieci comandamenti; egli veniva liberato da quest’obbligo dall’avvento della nuova legge di Cristo, secondo la quale chi credeva veniva salvato, indipendentemente dalla sua condotta pratica e dalle sue idee in campo sociale o politico. Ciò si configurava soprattutto come una giustificazione della trsagressione: «Mostri viventi», scrisse Lutero a proposito degli allievi che travisavano in senso libertario la sua lezione (24).

Gli antinomiani interpretavano il Nuovo Testamento in senso estremamente eterodosso. Nel Cinquecento essi si servirono della dottrina per giustificare la disobbedienza alle autorità statali e religiose. Nel Seicento, all’epoca della Rivoluzione inglese, la setta dei ranter conferì nuovo respiro alle articolazioni sociali e politiche della teoria, trasformandola in uno strumento di critica della ragion d’essere delle autorità temporali e giungendo sino a postulare l’irrilevanza dei fondamenti stessi della società. I ranter si pronunciarono esplicitamente contro l’organizzazione gerarchica, le norme sessuali, la logica patriarcale e l’etica del lavoro, smascherando e attaccando i presupposti autoritari su cui si reggeva la società. I loro argomenti positivi sottolineavano invece – sotto il manto di sofisticate giustificazioni teologiche – gli aspetti legati alla «naturalità» più conviviale e liberatoria: una libera sessualità condita da danze e alcool, uno spirito egualitario e comunitario, una concezione quasi ludica della vita associata. Alcuni conferirono a questi argomenti una piega inusuale, valorizzando le implicazioni «politiche» della trasgressione dei valori consolidati. Per esempio, il ranter Abiezer Coppe costruì il suo peculiare progetto «rivoluzionario» sul principio dell’inversione programmatica dei comportamenti e delle interrelazioni sociali tradizionali, sperando in una mutazione epocale che avrebbe condotto all’emersione di un individuo «naturale», conviviale, comunitario, libero da pregiudizi religiosi o sessuali. Il suo programma concreto era incentrato sulla distruzione «del culto, delle cariche universitarie, delle chiese, delle ordinanze terrene, della santità, della virtù e delle religioni», e infine degli stessi «doveri familiari» (25).

Negli argomenti antinomiani alla coscienza del singolo veniva delegata la possibilità di decidere della natura del bene e del male, indipendentemente dai valori sociali condivisi o dalle decisioni di qualsivoglia autorità positiva (la chiesa, lo stato, il partito, ecc.). Mentre si diffondevano nella cultura settecentesca e ottocentesca, spesso per vie marginali ed eccentriche, questi temi persero gran parte della loro strutturazione religiosa. Per giustificare le loro condotte antagoniste gli antinomiani si erano serviti di linguaggi largamente manipolabili, che rendevano difficile una seria confutazione (per esempio la Bibbia, oppure la pretesa di una qualche investitura divina diretta); a questi si andarono man mano sostituendo l’autonomia morale del singolo e il rispetto per le «leggi di natura». Nell’Enquiry concerning Political Justice di William Godwin ritroviamo questi stessi elementi, riletti alla luce delle istanze universalistiche e razionalistiche dell’illuminismo (26).

Negli Stati Uniti, dove le influenze culturali del protestantesimo radicale avevano plasmato una ricca tradizione di contestazione dell’autorità e di opposizione al «sistema», gli esponenti dell’anarchismo ottocentesco non di rado usarono questi argomenti con una certa consapevolezza storico-culturale. Stephen Andrews, per esempio, costruì una linea di sviluppo della modernità che partiva dalla Riforma, passava per la democrazia (liberale) e culminava nell’anarchismo, mentre Lysander Spooner si servì dei tipici temi antinomiani per giustificare sul piano politico l’irrilevanza delle obbligazioni che lo stato tentava di imporre all’individuo e sul piano etico l’irrilevanza delle norme che la società tentava di imporre agli individui (27).

7. Una selva di sperimentazioni
Passiamo ora a un altro tema che mi pare illustrare la forte presenza di un ethos libertario piuttosto strutturato prima ancora della formazione del «progetto» anarchico ottocentesco: la «tolleranza», il concetto scelto non a caso da Berneri per illustrare la radicale alterità dell’anarchismo rispetto alle dottrine comuniste. Il soggetto non è irrilevante, come non mancò di notare lo stesso Berneri (28). Si tratta infatti del principale focus intellettuale per mezzo del quale si è discusso in Occidente di argomenti centrali per la cultura libertaria: la misura ammissibile del dissenso individuale, la determinazione dello spazio della sperimentazione sociale di singoli e gruppi, la natura del potere che le istituzioni positive e non – si tratti dello stato o della comunità – possono esercitare sulle coscienze.

La maggior parte dei sostenitori della tolleranza, tra Cinque e Seicento, non era granché «tollerante». In genere le storie della libertà religiosa tracciano un quadro «eroico», in cui i «combattenti per la libertà» e i difensori dei diritti della coscienza si scontrano con le forze dell’assolutismo e del pregiudizio, costituendo nel processo i valori fondanti della civiltà occidentale moderna. In questa visione teleologica si fondono pensatori ed esperienze del tutto diverse, accomunate a volte soltanto dall’«anticipazione» della modernità. Alcuni fautori della repressione (Georgius Cassander, Francesco Bacone, Wilhelm Gottfried Leibniz) compaiono così a fianco dei sostenitori di una tolleranza limitata (John Locke), dei teorici della supremazia dello stato «arbitrale» (Ugo Grozio, Baruch Spinoza) e dei difensori ad oltranza della libertà di pensiero nei suoi risvolti pratici e «sperimentali» (Jacopo Aconcio, Roger Williams, John Goodwin, John Milton). Le differenti concettualizzazioni del ruolo della tolleranza esprimevano in realtà presupposti e fini assai diversi e si articolavano intorno a opzioni e ipotesi sociali e politiche palesemente contrastanti. Mi occuperò qui solo dei più «estremisti», ovvero di coloro che concepivano la libertà religiosa come il prodromo di una complessiva liberazione del pensiero, in vista di un ampliamento degli ambiti della sperimentazione individuale e collettiva nella sfera dell’economia e della politica, del sesso e della famiglia – una tradizione di pensiero che va dai difensori di Serveto sino a Denis Diderot, Thomas Paine e Thomas Jefferson (29).

Già a metà del Cinquecento alcuni polemisti riformati cominciarono a organizzare la loro apologia della tolleranza intorno al tema dell’autonomia del singolo. In occasione del dibattito sul rogo di Michele Serveto, alcuni – penso in particolare a Sebastiano Castellione, Matteo Gribaldi Mofa, Andrea Dudith e soprattutto Jacopo Aconcio – coniugarono le tematiche associate alla supremazia della coscienza individuale con un atteggiamento epistemologico fondato su una versione moderata del dubbio scettico. Per costoro – e in particolare per Aconcio, autore degli Statagemata Satanae (1564) – l’intelletto umano non poteva giungere alla comprensione delle verità finali e ultraterrene, ma la ragione, pur essendo fallibile, era in grado, se non di ascendere alle vette ultime, per lo meno di avanzare costantemente verso la conoscenza, in modo graduale e infinito. Le controversie, i dibattiti e i confronti avrebbero quindi contribuito – sia se l’idea in discussione si fosse rivelata vera, sia se si fosse rivelata falsa – alla crescita della conoscenza. Le conclusioni implicavano un quasi incondizionato elogio della libera sperimentazione: poiché nessuno poteva aspirare al possesso della verità assoluta, era impensabile l’imposizione di qualsivoglia ortodossia; ogni idea e ogni pratica dovevano di fatto esser messe alla prova e sottoposte al libero gioco dell’esame razionale (30).

Queste implicazioni fornirono in alcuni casi un quadro concettuale in cui organizzare teorie etiche e politiche, ecclesiologiche e storiche. Sono soprattutto le esperienze inglesi e americane a dare ampia dimostrazione della presenza del tema. In un panorama complessivo improntato dai valori di continuità, tradizione e gerarchia, i separatisti, i repubblicani, i libertini e tutto il variopinto côté del dissenso religioso ne fornirono con verve le più differenti interpretazioni. I teorici della supremazia congregazionale prima riconobbero ai singoli il diritto a esercitare liberamente la propria ragione, poi si pronunciarono per la gestione collegiale degli affari della congregazione, infine conclusero che i ministri del culto non erano necessari, scegliendo una specie di «autogestione». Spinti dalla necessità di giustificare il proprio dissenso, trasformarono l’apologia della tolleranza in una difesa della differenza, adottando una prospettiva in cui si valutavano con positività le innovazioni e le novità, prodromo appunto della crescita della conoscenza. Le ragioni del pluralismo divenivano così uno strumento per la giustificazione di soluzione autonomiste e decentraliste, che non di rado si allargavano dall’ecclesiologia al sociale e al politico (31).

In quanto al principio d’autorità, esso veniva contrapposto alla ragione e alla libera determinazione dei singoli: «Situare il fondamento nell’autorità significa dipendere dalle persone; situarlo nella ragione significa dipendere dalla realtà», dichiarò John Robinson, il pastore dei padri pellegrini, «esaminare la ragione delle cose è una specie di messa in stato d’accusa dell’autorità, e quindi è un pregiudizio per le possibilità della ragione rifarsi all’autorità per consiglio». Egli proseguì denunciando tutti coloro che «restavano superstiziosamente attaccati alle tradizioni dei loro anziani» e tutti coloro che sceglievano di seguire la «cieca tradizione» (32).

Non soprendendentemente, la riflessione sulla tolleranza mise in moto la discussione critica del ruolo dello stato. Alcuni mistici si pronunciarono (fumosamente) per l’abbattimento di ogni tipo di potere terreno. Altri avanzarono però significative considerazioni sulle nozioni di rappresentanza e delega, chi proponendo un decentramento delle funzioni amministrative e politiche che si ampliava in una concezione autonomista della comunità, chi adottando schemi garantisti che oscuravano egualmente i poteri dello stato a vantaggio della cittadinanza (33).

Parte dell’eredità di questa cultura, privata delle componenti più critiche, passò nel pensiero liberale. Parte costituì una delle costellazioni intellettuali degli illuministi meno sensibili ai valori della borghesia in ascesa. Un’altra parte ancora, pur percorrendo sentieri marginali e occulti, venne immagazzinata nelle speculazioni degli eccentrici e degli estremisti (personaggi come Jean Meslier o William Blake), costituendo un immaginario che doveva riemergere in grande stile dopo la Rivoluzione francese e trasmigrare poi nel pensiero propriamente anarchico.

8. L’anarchismo tra ethos e progetto
La «revisione» di Malatesta e Berneri, fondata sulla contrapposizione tra ethos e progetto, si pone quindi come un momento di recupero delle valenze più propriamente etico-epistemologiche dell’anarchismo, le cui matrici, lungi dall’ancorarsi al progetto classico, risalgono invece allo sviluppo più ampio di uno spirito libertario nella modernità (pur senza dimenticare che furono però gli esponenti del classicismo anarchico a precisare compiutamente i modi in cui questo spirito si era articolato nella realtà sociale, nelle istituzioni, nelle interrelazioni tra gli uomini.

Tuttavia, nonostante la riflessione dei due italiani abbia indicato strade e percorsi non solo suggestivi ma anche rilevanti dal punto di vista dell’impostazione dell’azione politica, essa si è per molti versi rivelata un binario morto. È vero che buona parte dei pensatori anarchici contemporanei che ho citato nel primo paragrafo si muovono ormai in una sfera postclassico; d’altro canto, questo recupero in grande stile dell’eredità revisionista è stato il frutto di una profonda crisi storica dell’anarchismo, culminata proprio nelle illusioni sessantottine e nei fallimenti degli anni successivi che non può certamente dirsi compiuta (34). Come abbiamo visto, i due italiani avevano ripensato la loro esperienza politica in seguito all’esauriamento della spinta propulsiva dell’anarchismo e alla sua progressiva emarginazione come opzione praticabile. La sconfitta in Spagna nel 1939 contribuì a spazzar via le illusioni, le speranze e forse anche le prospettive utopiche di una generazione. Di consgeuenza il dopoguerra è stato contrassegnato dalla scomparsa dell’anarchismo come presenza di massa, consegnando i militanti a un periodo di stagnazione intellettuale, di crisi generazionale e di sostanziale subordinazione alle parole d’ordine della «sinistra». Forse l’aspetto più importante di questo allineamento alla retorica del socialcomunismo negli anni della guerra fredda è stata l’incapacità di sviluppare e ampliare le indicazioni di Malatesta e Berneri, che puntavano al risituamento dell’anarchismo nella sfera della civiltà liberalradicale, della società aperta e del pluralismo delle forme di vita: ovvero in una sfera di valori e proposte che erano anatema agli occhi dei fautori del socialismo di stato, del comunismo coartato, dello schiacciamento programmatico del dissenso e degli altri elementi del totalitarismo marxista e dei suoi derivati. Gli anarchici hanno in genere scelto un ritorno alla vulgata e al progetto «classico», abbracciando nuovamente la retorica della rivoluzione proletaria, della guerra di classe, dell’astensione «ideologica», del cosiddetto «comunismo libertario», e così via.

In altri termini, il movimento anarchico è arrivato al ‘68 con un’armamentario teorico e una strumentazione concettuale palesemente inadeguati. I giovani si sono appropriati delle parole d’ordine dell’ethos dell’anarchia, ponendo l’enfasi sulla necessità dell’autonomizzazione, sulla critica della gerarchia e del dominio, sulla valorizzazione della sperimentazione e del pluralismo culturale. Nel contempo, l’anarchismo offriva loro una progettualità desueta, palesemente in sudditanza rispetto alle tendenze dominanti comunisto-rivoluzionarie. La «via anarchica» propriamente intesa non si rivelava abbastanza caratterizzata, o abbastanza diversa. L’orizzonte utopico e l’ethos anarchico hanno continuato a esercitare fascino e influenza, ma il «progetto», ancorato ai «mugiki russi» e ai «braccianti del beneventano» da un lato e all'ortodossia socialista dall'altro, si è dimostrato irrimediabilmente obsoleto (35).

NOTE

1. G. Woodcock, Anarchism. A History of Libertarian Ideas and Movements, Penguin. Harmondsworth 1986, p. 7. Il termine "trenodia" è stato in effetti usato da un recensore, ma Woodcock ha approvato; si veda comunque l'intera prefazione alla nuova edizione del 1986, in cui l'autore spiega per quali motivi "il libro non è più una trenodia", dato che "dal momento in cui è stato scritto l'anarchismo è riemerso in nuove forme, adattandosi a un mondo in mutazione" (p. 8).

2. Sul ruolo dell'anarchismo nella ribellione studentesca del 1968 si confrontino: Gabriel e Daniel Cohn-Bendit, L'estremismo, rimedio alla malattia senile del comunismo, tr. it. Einaudi, Torino 1969, in particolare pp. 21-103; P. Goodman, La bandiera nera dell'anarchismo, in P. Goodman, Individuo e comunità, tr. it. a cura di P. Adamo, Elèuthera, Milano 1995, pp. 139-154; Y. Maitron, La pensée anarchiste traditionelle et la révolte des jeunes, in Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo, Fondazione Luigi Einaudi, Torino 1971, pp. 543- 573; M. Bookchin, Per una società ecologica, tr. it. Elèuthera, Milano 1989, pp. 150-164. E' tuttavia da notare, trent'anni dopo il cosidetto "evento", il permanere di un equivoco di fondo, facilmente coglibile negli stessi scritti sopra citati. Mentre il riferimento privilegiato resta il 1968, dal maggio in avanti, è evidente che i segni della presenza della specifica cultura anarchica nei circoli giovanili, nell'underground, nella controcultultura, nei provo, negli hippy, sono rintracciabili soprattutto negli anni precedenti: in altri termini, è probabile che il fatidico 1968, con le sue marce studentesche, il massiccio intervento delle organizzazioni giovanili di partito (in primo luogo quelle comuniste) e l'entrata nella politique, segnali non tanto la riemersione dell'anarchismo quanto una sua nuova marginalizzazione.

3. C. Rosselli, postilla a C. Berneri, Gli anarchici e G.L., "Giustizia e Libertà", 6 dicembre 1935, ristampata in C. Berneri, Pietrogrado 1917 - Barcellona 1937, a cura di P.C. Masini e A. Sorti, La Fiacola, Ragusa 1990, pp. 165-168, citaz. p. 166 (questo prima replica di Rosselli a Berneri, non compare, nonostante la sua rilevanza, né in C. Rosselli, Scritti dall'esilio, 2 voll., a cura di C. Casucci, Einaudi, Torino 1988, 1992 [dove compare però la seconda replica all'anarchico italiano], né in C. Rosselli, Scritti politici, a cura di Z. Ciuffoletti e P. Bagnoli, Guida, Napoli 1988). Sui rapporti tra Giustizia e Libertà e gli anarchici vedi E. Santarelli, Il socialismo anarchico in Italia, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 196-197; U Marzocchi, Carlo Rosselli e gli anarchici, in Giustizia e Libertà nella lotta antifascista e nella storia d'Italia, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 399-408.

4. L. Galleani, La fine dell'anarchismo?, Antistato, Cesena 1966, p. 32.

5. La locuzione "anarchismo classico", riferita ai maestri dell'Ottocento, è oggi ampiamente diffusa: vedi M. Larizza Lolli, Stato e potere nell'anarchismo, Angeli, Milano 1986, pp. 94-97; G. Crowder, Classical Anarchism, Clarendon Press, Oxford 1991; P. Marshall, Demanding the Impossibile. A History of Anarchism, Fontana, London 1983, parte IV; G. Berti, Un'idea esagerata di libertà, Elèuthera, Milano 1994.

6. M. Bakunin, Dio e lo stato, tr. it. Edizione RL, Genova 1966, p. 60; L. Spooner, Natural Law, A. Williams & Co., Boston 1882, p. 5 (rist. anast. in The Collected Works of Lysander Spooner, 6 voll., a cura di C. Shively, M&S Press, Weston 1971, vol I); P. Kropotkin, La scienza moderna e l'anarchia, tr. it. Casa Editrice Sociale, Milano s.d., p. 56.

7. Sull'esistenza di una frattura nello sviluppo del pensiero anarchico che separa un anarchismo "classico" da un anarchismo "postclassico", e sulla natura delle continuità e delle rotture in questione, si confrontino L. Mercier Vega, La pratica dell'utopia, tr. it. Antistato, Milano 1978, pp. 13-80; M. Larizza Lolli, Stato e potere, cit., pp. 94-97; G. Berti, Un'idea esagerata di libertà, cit., pp. 179-190.

8. Sul percorso di Berneri e Malatesta cfr. G. Berti, Un'idea esagerata di libertà, capp. V e VI (Berti, al contrario di ciò che qui si sostiene, considera Malatesta anocra all'interno dei paradigmi "classici") e, su Berneri in particolare, G. Berti, Sull'anarchismo di Berneri: il problema del `revisionismo', in Memoria antologica, saggi critici e appunti biografici in ricordo di Camillo Berneri, Edizioni Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1986, pp. 81-126.

9. E. Malatesta, Individualismo, in "Umanità Nova" (1922), in Scritti, 3 voll., Edizioni del Risveglio, Ginevra 1934-1936, rist. anast. a cura del Movimento Anarchico Italiano, Carrara 1975, II, pp. 140-141: E. Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchismo, "Umanità Nova" (1922), ora in Scritti, II, p. 42.

10. E. Malatesta, Nota all'articolo "Scienza e anarchia" di Hz, "Pensiero e Volontà" (1925), ora in Scritti, III, p. 181; E. Malatesta, La fede e la scienza "Pensiero e Volontà" (1925), ora in Scritti, III, p. 118; E. Malatesta, "Tanto peggio tanto meglio", "Umanità Nova" (1920), ora in Scritti, I, p. 97; E. Malatesta, Commento all'articolo "Scienza e anarchia" di Nino Napolitano, "Pensiero e Volontà" (1925), ora in Scritti, III, p. 176.

11. E Malatesta, Gradualismo, "Pensiero e Volontà" (1925), ora in Scritti, III, p. 194; E. Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchismo, cit., pp. 42-43; E. Malatesta, Internazionale collettivista e comunismo anarchico, "Pensiero e Volontà" (1926), ora in Scritti, III, p. 259; E. Malatesta, A proposito di "revisionismo anarchico", "Pensiero e Volontà" (1924), ora in Scritti, III, p. 61.

12. E. Malatesta, Gradualismo, cit., p. 195.

13. E. Malatesta, Proprietà individuale e libertà, "Umanità Nova" (1922), ora in Scritti, I, p. 321; E. Malatesta, Qualche considerazione sul regime della proprietà dopo la rivoluzione, "Il Risveglio" (1929), ora in Scritti, III, p. 344.

14. E. Malatesta, Individualismo e comunismo nell'anarchismo, "Pensiero e Volontà" (1924), p. 84.

15. E. Armand, Vivere l'anarchia, tr. it. Antistato, Milano 1983, pp. 24-25 (si tratta dell'edizione ridotta del testo di Armand, alla cui prima traduzione italiana Malatesta alludeva sin dai primi anni Venti).

16. C. Berneri, Anarchismo e federalismo, "Pagine Libertarie" (1922), ora in Pietrogrado, cit., pp. 54, 56; C. Berneri, Per un programma d'azione comunalista, scritto inedito del 1926, ora in Pietrogrado, cit., p. 97; Camillo Berneri a Libero Battistelli, in C. Berneri, Epistolario inedito, a cura di A. Chessa e P.C. Masini, Edizioni Archivio Famiglia Berneri, Pistoia 1980, p. 19.

17. Ivi, pp. 97, 98; C. Berneri, Fallimento o crisi?, "Guerra di Classe" (1930), ora in Pietrogrado, cit., pp. 129, 130.

18. C. Berneri, Per un programma d'azione comunalista, cit., p. 98; C. Berneri, Della tolleranza, "Fede" (1924), ora in C. Berneri, Il federalismo libertario, a cura di P. Mauti, La Fiaccola, Ragusa 1992, p. 114.

19. C. Berneri, Il liberismo nell'Internazionale, "Rivoluzione liberale" (1923), ora in Pietrogrado, cit., p. 60.

20. C. Berneri, Della tolleranza, cit., pp. 116, 117. Forse anche Berneri pensava ad alcuni brani di Armand: "l'individuo [...] non potrebbe logicamente esistere ed evolvere con agio che in una umanità ove funzionassero simultaneamente l'uno accanto all'altro una infinità di gruppi e di individualità isolate, reggentesi a loro piacimento praticando ogni specie di combinazioni o di postulati economici, politici, scientifici, affettivi, letterari, ricreativi. Una selva, dunque, di realizzazioni individualiste e collettive" (E. Armand, Vivere l'anarchia, cit., p. 24).

21. Ivi, p. 117; C. Berneri, Umanesimo e anarchismo, "L'Adunata dei Refrattari" (1936), ora in Pietrogrado, cit., pp. 194-195.

22. G. Berti, L'anarchismo nella storia, ma contro la storia, "Interrogations", n. 2, 1975, pp. 93-119.

23. M. Lutero, Libertà del cristiano, tr. it. Claudiana, Torino 1976, p. 36. Sulle relazioni tra il radicalismo protestante e lo sviluppo di un'ethos libertario si veda P. Adamo, Il dio dei blasfemi, Unicopli, Milano 1993, passim (si veda anche l'opinione di Stephen Pearl Andrews citata alla successiva nota 27). Al tema è stata dedicata particolare attenzione soprattutto dagli studiosi che si sono occupati dello sviluppo dell'anarchismo negli Stati Uniti, dove i rapporti con la tradizione portestante sono lampanti: E. Schuster, Native American Anarchism, 1932, ora Loompanics, Washington 1983, pp. 13-39; D. DeLeon, The American as Anarchist, The Johns Hopkins University Press, Baltimore e London 1978, pp. 14-23; R. Creagh, Histoire de l'anarchisme aux Etats-Unis d'Amerique (1826-1886), La Pensée Sauvage, Grenoble 1981, pp. 22-39.

24. M. Lutero, Discorsi a tavola, tr. it. Einaudi, Torino, p. 234. Sullo sviluppo e i percorsi successivi dell'antinomianesimo sino alla Rivoluzione inglese cfr. P. Adamo, Il dio dei blasfemi, cit., pp. 61-105.

25. A. Coppe, Un secondo rotolo volante e fiammegiante, tr. it. in P. Adamo, Il dio dei blasfemi, cit., pp. 202, 203. Sull'antinomianesimo ranter si veda lo stesso testo, pp. 147-184.

26. Sulla compenetrazione tra linguaggio illuminista e tradizione protestante nell'opera di Godwin si vedano W. Stafford, Dissenting Religion Translated into Politics: Godwin's ‘Political Justice’, "History of Political Thought", I, 1980, pp. 279-299 e M. Philps, Godwin's Political Justice, Duckworth, London 1986, passim.

27. S.P. Andrews, The Science of Society. N. 1. The True Constitution of Government, 1851, Sarah E. Holmes, Boston 1888, pp. 7-12 (secondo Andrews "il primo raggio di luce che attraversò la densa oscurità del regime antico fu la dichiarazione di Martin Lutero in favore del diritto al giudizio privato nelle questioni di coscienza", p. 7); per la critica dell'obbligazione politica tradizionale da parte di Spooner vi veda soprattutto No Treason. N. VI. The Constituion of no Authority, Published by the Author, Boston 1870; per la sua critica delle "norme" sociali si veda Vices are not Crimes, 1875, ora TANSTAAFL, Cupertino 1977.

28. "Parrà ad alcuno che, dati i tempi che corrono e data la nostra condizione di vinti, sia inutile e fors'anche fuori di luogo il trattare della tolleranza" (Della tolleranza, cit., p. 117). Berneri concluse il suo intervento criticando (ivi, p. 117) la tesi roussoviana secondo la quale chiunque sostenga non esservi "salvezza fuori dalla nostra chiesa" debbe esser soggetto alla pena di morte. L'intolleranza in materia di dogma non implica affatto l'intolleranza civile: al contrario, "non ci sarebbe gran che di male" se in una società anarchica gli intolleranti in religione cercassero di convertire - senza uso di violenza o coartazione - tutti gli atei. "A questo punto qualcuno protesterà", commentò Berneri, "è per quelli che non sono d'accordo con me che ho scritto questo articolo". Forse l'unico grande pensatore anarchico militante genuinamente sensibile alla problematica religiosa, Berneri intravvide il legame storico- culturale tra protestantesimo ed ethos libertario, quando, tentando di precisare i momenti di sviluppo del contrasto tra "l'autorità e la libertà", citò in rapida sequenza "monarchia assoluta e libero comune, papa infallibile e protestantesimo, capitali