"l’evoluzione del quadro nigeriano e la sfida di Boko Haram", Alessandro Turci

Per analizzare l’insorgenza di Boko Haram nel quadro interno nigeriano, vanno individuati alcuni punti cardinali per orientarci nell’analisi: la sperequazione economica tra il sud e il nord del paese, il mancato power sharing tra le etnie, le risonanze della guerra libica prima e maliana poi per quel che riguarda il traffico e l’approvvigionamento di armi della setta (erano esattamente questi i punti-chiave suggeriti nell’analisi di oltre due anni fa su Aspenia online).

Accanto a questi focus, esiste un ulteriore punto che, alla luce degli ultimi sviluppi, sembra essere diventato il fattore decisivo per spiegare perché Boko Haram sino ad ora non sia stato sconfitto e perché difficilmente ciò accadrà nell’immediato futuro. Questo fattore è lo Stato nigeriano, con le sue contraddizioni che ne fanno paradossalmente il primo ostacolo alla soluzione del problema, ad un anno esatto dalla dichiarazione di stato di emergenza dichiarato dal presidente Goodluck Jonathan.

Quando Boko Haram ha conquistato le prime pagine dei giornali internazionali per il rapimento, il 14 aprile, di oltre 200 ragazze liceali dello stato di Borno, abbiamo avuto la conferma che il gruppo non è più la setta religiosa inizialmente descritta dagli analisti. È ora una fazione terroristica che sembra aver concluso la propria fase embrionale e la stessa fase di radicamento sul territorio d’origine, assurgendo definitivamente a ruolo di forza regionale che domina il nord della Nigeria, il confine col Camerun, il Ciad e il Niger: un lungo arco insomma che dallo Yobe River arriva fino al lago Ciad.

Ora questa ex-setta, divenuta per gli USA organizzazione terroristica nel 2013, ha dato inizio alla propria escalation sul palcoscenico internazionale con un’azione criminale, il rapimento di massa appunto. Un evento che ha paradossalmente beneficiato, agli occhi dei suoi ideatori e almeno in termini di riverbero globale, della campagna mediatica “bring back our girls” che ha visto Michelle Obama e molta parte del mondo politico (perfino le due ex prime donne francesi all’unisono) e culturale (in questi giorni il festival di Cannes) prendere pubbliche posizioni di condanna. Tra i primi, anche papa Francesco aveva fatto sentire la propria voce.

Se analizziamo il senso dell’appello, capiamo immediatamente che il “bring back” non può essere pleonastico, in altre parole che non è rivolto a Boko Haram: è fondamentalmente rivolto allo Stato nigeriano perché agisca e trovi una soluzione tanto al problema particolare quanto all’emergenza in generale. Ed è qui che sorgono i principali ostacoli.

Lo Stato nigeriano non solo è responsabile per la mancata repressione del fenomeno, ma ne è la prima causa, per due ragioni essenziali. Punto primo, il suo esercito non ha i mezzi sufficienti a contrastare militarmente Boko Haram e difficilmente potrà dotarsene. Ricordiamo sempre come il paese sia stato per lunghi periodi che giungono fino all’anno 2000 il teatro di spietate dittature militari succedutesi quasi senza soluzione di continuità. È quindi logico che il potere civile nell’ultimo decennio abbia volutamente mirato a indebolire il peso dei militari, riducendone influenze e dotazioni. È pur vero che la Nigeria rimane uno dei migliori eserciti del continente (primato assai relativo) e che suoi contingenti sono utilizzati in altre aree di crisi (vedi Mali), ma ugualmente Abuja non dispone di truppe adatte al tipo di conflitto che è in corso nel nord del paese.

Il secondo fattore critico deriva direttamente dal primo, ovvero che le potenze occidentali già da mesi accorse a fianco della Nigeria per la repressione di Boko Haram (Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele) con invio di consulenti e specialisti, sono ora restie a concedere armamenti: perché, se è vero che gli integralisti hanno mietuto migliaia di vittime dal 2009 a oggi, è altrettanto vero che le forze di sicurezza nigeriane ne hanno causate a loro volta migliaia. Con l’ulteriore paradosso che le vittime della follia millenaristica dei miliziani (si pensi all’obiettivo di fondare un nuovo Califfato) sono – se così è lecito esprimersi - più mirate di quelle della repressione governativa, che spesso coglie in maniera indifferenziata tra i civili.

Ecco perché gli esperti occidentali di antiterrorismo sconsigliano di armare un esercito che farebbe un uso indiscriminato della forza, tale da risultare alla fine addirittura controproducente per gli stessi eventuali sponsor. Proprio alla luce di questo stato di cose, il Regno Unito ha ultimamente ridotto al minimo il contributo all’addestramento delle forze nigeriane e per legge non può vendere armi letali ad Abuja.

Quest’azione grossolana delle forze di sicurezza governative si spiega anche con fattori di ordine pratico. Molti soldati nigeriani inviati contro Boko Haram provengono dal nord del paese, spesso sono musulmani, e sono restii ad agire contro gli integralisti per paura di ritorsioni quasi certe verso i loro familiari, in un territorio dove il gruppo si muove meglio delle forze regolari. Inoltre, alla famiglia di un soldato che dovesse cadere in uno scontro, spetterebbero a titolo d’indennizzo solo tre mesi di stipendio dalla morte del militare. Ecco perché l’esercito preferisce ingaggiare combattimenti con presunti terroristi piuttosto che andare a stanare quelli effettivi, causando vittime indiscriminate e innocenti e incrementando così nella popolazione sfiducia verso le istituzioni centrali.

Vediamo quindi con chiarezza come uno Stato nigeriano più forte – la soluzione almeno teorica – finisca per essere probabilmente un problema in sé, per altri versi. Forse per uscire da questo stallo, o circolo vizioso, il vertice di Parigi del 14 maggio potrebbe segnare una svolta. Hollande ha incontrato il presidente della Nigeria insieme ai leader di Camerun, Niger, Ciad e Benin; presenti all’incontro anche rappresentanti di Stati Uniti, Regno Unito e Unione Europea.

Dichiarazioni finali quanto mai esplicite: guerra senza quartiere a Boko Haram tramite il coordinamento dei servizi d’intelligence e lo scambio d’informazioni, la sorveglianza delle frontiere, una presenza militare intorno al lago Ciad e una capacità d’intervento consistente in caso di ulteriore escalation del conflitto. Dando per scontate le prime misure, sarà interessante vedere come la sorveglianza del bacino del Ciad verrà organizzata e soprattutto cosa si intenderà per “capacità d’intervento”. Sarà una forza militare sovranazionale, composta di corpi speciali addestrati da inviare nell’area con precise regole d’ingaggio? O s’intende, come ha fatto la Francia in Mali e in Repubblica Centrafricana nei mesi scorsi, inviare le proprie truppe regolari? E, in questo caso, che ruolo avrebbe l’ex potenza coloniale, cioè il Regno Unito? Se fino ad ora gli stessi corpi speciali arrivati in Nigeria, come è stato più volte sottolineato da fonti ufficiali e ufficiose, avevano il solo compito di ritrovate le studentesse rapite e non di addestrare le forze nigeriane, il summit di Parigi porterà a un effettivo cambio di rotta?

Molte domande per uno snodo delicatissimo dal momento che in Nigeria, ormai la prima economia africana, è iniziata la più lunga campagna elettorale della storia recente, con il voto che arriverà solo nel 2015 ma per il quale la lotta di potere è già in corso. Il presidente Goodluck Jonathan in realtà sembra aver dato credito alle analisi dei suoi collaboratori superstiti (nell’ultimo anno la crisi Boko Haram ha mietuto molte vittime eccellenti nello staff presidenziale e nella squadra dei ministri), secondo i quali il gruppo terroristico sarebbe eterodiretto dai politici musulmani del nord per contendere ai cristiani la leadership a livello di governo centrale.

D’altronde, va sempre ricordato che il mancato power sharing tra etnie è stata una delle cause scatenanti il fenomeno integralista. Goodluck Jonathan è stato infatti quel vice presidente cristiano divenuto capo di Stato nel 2010 alla morte del presidente musulmano Umaru Yar’Adua che, invece d’indire nuove elezioni, decise di portare a termine il mandato del predeccessore: ne confermò, sulla carta, l’agenda politica ma di fatto mortificò le aspirazioni di un nord già depresso economicamente. La sua discussa vittoria nelle elezioni del 2011 ha così ulteriormente ampliato il solco tra nord e sud del paese.

Nel frattempo un mese è trascorso dal rapimento delle studentesse di Chibok, e la situazione non sembra essere vicina all’epilogo. Altrettanto seria è la condizione dei profughi nigeriani: oltre 41 mila sono fuggiti verso il Niger, 12 mila verso il Camerun e circa 4 mila verso il Ciad. A questi si aggiunga il trasferimento forzoso interno, tra stati nigeriani, di almeno 250 mila civili sottratti alle minacce dirette dei terroristi.

Infine - negata, poi confermata e ancora negata dalle autorità nigeriane - la richiesta di trattativa avanzata al leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, è forse un segnale da seguire con attenzione. È il gruppo che chiede l’apertura di un dialogo, e certo fa parte del gioco tattico da parte del governo non aprire un tavolo di negoziato coi terroristi di fronte all’opinione pubblica mondiale, ma che questo sia un passaggio necessario è la logica spuria dei fatti a suggerirlo.