"Chi sono i ribelli siriani anti-Assad", Francesca Borri

(Science Photo Library)

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 I primi giorni si fermano ad Atmeh, 2.000 abitanti di là dal confine con la Turchia, per l'addestramento. Ma non imparano a combattere: imparano intanto a comunicare tra loro. Perché sbarcano qui da Tunisia, Afghanistan, Libia, ma anche Londra, Marsiglia, le nostre periferie: e la lingua più parlata, al fronte, non è l'arabo ma l'inglese.

Sono i muhajiroun, gli immigrati. I combattenti stranieri, non necessariamente islamisti, senza cui i ribelli, in Siria, sarebbero stati travolti dall'esercito - e soprattutto dalla sua aviazione. Molti, e in particolare i ceceni, sono veterani di mille battaglie, assoldati da Arabia Saudita e Qatar perché considerati i migliori combattenti al mondo. Eppure, nonostante abbiano rapidamente cambiato gli equilibri della guerra, e evitato una sconfitta che sembrava certa, è a causa loro che gli Stati Uniti, e l'Europa, non intervengono in Siria, rimanendo perplessi a guardare: perché nessuno sa quali siano i loro reali obiettivi. Sono loro, non il gas, l'arma più potente dell'arsenale di Assad.

L'Esercito libero è comparso nel luglio del 2011. Quando il regime ha optato per la repressione violenta delle manifestazioni, e i siriani, davanti all'ordine di sparare, hanno cominciato a disertare e portarsi a casa il kalashnikov. Ragazzi che difendevano il proprio villaggio, il proprio quartiere: è iniziata così - mentre i lacrimogeni venivano sostituiti dai proiettili, i proiettili dall'artiglieria, l'artiglieria dai missili. Sono gruppi sparsi, e non hanno che i pochi dollari che arrivano dall'estero, spesso da emigrati siriani originari delle stesse zone. Si incontrano ovunque, qui, intenti a inventarsi le loro armi artigianali con avanzi di lamiere, pali stradali, perfino scatole di tonno. Si incontrano mentre mirano per stanare un cecchino, mentre gli esplodono granate tra le mani. Capita perfino che siano i giornalisti i più esperti di armi qui: capita così di spiegare come si usa un mortaio. E non chiedono più munizioni, ormai, ma cibo: hanno fame.

Ma oltre ai ragazzi in kalashnikov e infradito, circa 50.000, altri si sono riuniti in gruppi più ampi e soprattutto meglio equipaggiati. Come la Liwa al-Tawhid (la Brigata dell'Unità), la più forte di Aleppo, legata ai Fratelli musulmani. O i Battaglioni Farouq, protagonisti della più ostica delle rivolte, quella di Homs, e la Suqour al-Sham (i Falchi del Levante), che ha anche una sezione per gli aiuti umanitari. L'Ahrar al-Sham (i Liberi del Levante), è invece la maggiore forza islamica moderata: l'assassinio del suo capo in settembre, targato Al-Qaeda, ha innescato gli scontri tra ribelli al momento in corso. A differenza dei gruppi più radicali, infatti, esterni all'Esercito libero, gruppi come l'Ahrar al-Sham rivendicano un maggiore spazio per la shari'a ne post-Assad, ma comunque nel contesto di una Siria laica e plurale. Certo è difficile capire la verità, a parte le dichiarazioni dei comandanti e portavoce; di sicuro posso solo dire che mi hanno lasciato sotto un bombardamento, una volta, perché nell'unico rifugio erano tutti uomini, e sotto l'elmetto non avevo il velo. Non parlano con i giornalisti ma mi hanno dato questo messaggio: "Non scrivere che non siamo democratici. Che non siamo trasparenti. Se hai domande, trovi tutto sulla nostra pagina Facebook".

L'Esercito libero non ha mai incluso tutti i ribelli, né è mai stato capace di coordinarli - né di individuare le priorità, formulare una strategia - per varie ragioni. La prima, e principale, è che è stato a lungo guidato dalla Turchia: dal generale Riad al-Assad, noto per impartire istruzioni via Skype. Ma soprattutto, l'Esercito libero è minato dalla competizione tra Arabia Saudita e Qatar, che si contendono la fedeltà delle varie brigate a colpi di dollari. L'ultimo tentativo di ristrutturazione è del dicembre 2012 e il nuovo Comando supremo del generale Salim Idriss è ora al servizio della Coalizione nazionale, l'altrettanto disastrata componente civile dell'opposizione ad Assad. La cooperazione tra le brigate è migliorata, ed è stata persino decisa una strategia: colpire gli aeroporti, l'artiglieria e i missili, dal momento che la superiorità di Assad è tutta aerea, per poi concentrarsi sull'assalto a Damasco. Questo per evitare di avanzare città a città, da nord a sud - il che significherebbe coinvolgere nella guerra i civili (il drammatico errore di Aleppo) e alienarsi il loro consenso. Il problema è che le singole brigate continuano a essere autonome nella ricerca e gestione di armi e risorse, e in più, i singoli combattenti continuano a identificarsi con le proprie brigate invece che con l'esercito in sé. Con il risultato che non si ha una catena di comando, e crimini e soprusi non vengono puniti - non solo i saccheggi, se si pensa che neppure Abu Sakkar, filmato mentre banchetta con il cuore di un lealista, è mai stato rimosso.

Su questo sfondo, pochi giorni fa 13 brigate, circa l'80% dei ribelli, si sono svincolate dalla Coalizione nazionale: non intendono riconoscere il suo governo in esilio, ma costruire invece una Siria basata sulla shari'a. Quello che sembra un duello tra laici e islamisti è però in realtà un duello per il potere - anche la Coalizione nazionale, infatti, è vicina ai Fratelli musulmani. Solo che è quasi inesistente: impegnata in faide interne, è incapace di ottenere armi e sostegno, ma anche di assistere gli sfollati e amministrare le aree liberate. Da un lato, i combattenti non vogliono consegnare a chi è rimasto all'estero un potere conquistato con il proprio sangue; dall’altro, le popolazioni civili contestano ai ribelli i frequenti saccheggi e le carenze organizzative che portano, ad esempio, alla mancata riapertura delle scuole.

E così, stravolti dalla fame e dalle epidemie, decimati dai missili, i siriani guardano sconcertati l'Esercito libero azzuffarsi con la Coalizione nazionale, e intanto scontrarsi con gli islamisti. Ogni volta che torni in Siria, infatti, scopri che i vecchi bad guys sono ora good guys: perché intanto è arrivato qualcuno di ancora più estremista. Così 'Ahrar al-Sham, che ci terrorizzava un anno fa, ha poi cominciato a proteggerci da Jabhat al-Nusra (il Fronte del Sostegno), il gruppo che ha introdotto gli attentati suicidi ed è stato bollato come gruppo terrorista dalle Nazioni Unite. Ed è Jabhat al-Nusra oggi a proteggerci dall'ISIS (lo Stato Islamico dell'Iraq e del Levante) cioè la filiale di Al-Qaeda fondata in Iraq nel 2004 per sradicare non solo gli americani, ma anche gli sciiti, e che mira non a rovesciare Assad ma a conquistare pezzi di Siria per ripristinare il califfato. Sono tutti stranieri, moltissimi sono sauditi. E si sono rafforzati a luglio, con l'attacco al carcere di Abu Ghraib in Iraq e la fuga dei principali leader di Al-Qaeda. In questi giorni, i ribelli sono tutti compatti in guerra contro l'ISIS, che per ora prevale e domina i passaggi di frontiera - e cioè le cruciali vie di rifornimento dalla Turchia. I resoconti dai suoi checkpoint sono monocorde: esecuzioni sommarie di chiunque sia ritenuto un infedele. Ma è impossibile verificare; adesso che si tratta di raccontare i crimini non solo del regime, ma anche dei ribelli, mentre i giornalisti hanno iniziato a sparire e gli ostaggi, al momento, sono sedici.

Un'idea complessiva, però, è possibile averla a Raqqa, 220.000 abitanti, 800.000 con gli sfollati, la prima città capoluogo sotto il controllo dei ribelli. Il potere non è mai stato restituito ai cittadini, né è mai cominciata la ricostruzione. Saccheggi, estorsioni, arresti, torture. Da un paio di settimane, a Raqqa governa solo l'ISIS, che ha raso al suolo con quattro autobombe la sede della brigata locale dell'Esercito libero. E dire che il nome più famoso, in città, è quello di Jimmy Shihinian, 25 anni, cristiano di etnia armena: è lui, esponente di quelle minoranze da cui Assad dice di essere ancora sostenuto, a guidare la rivoluzione. "La stragrande maggioranza, qui, è contraria a uno stato islamico, e più della metà è più che contraria: è indignata. Ma non possiamo fare niente", spiega. "Sono loro ad avere le armi".

La stessa frase che sentivamo a Damasco due anni fa. Solo che allora si riferiva ad Assad.

 

Francesca Borri ha scritto questa analisi da Aleppo.