Marco Pannella: intervista a Playboy, 1 gennaio 1975

 

Intervista a Playboy, 1 gennaio 1975

La vita, dall’adolescenza ai primi impegni politici, lo zio prete e altri fatterelli della giovinezza, l’impossibilità del divorzio tra vita pubblica e vita privata, i libri, la politica e l’ideologia. Da questa lunga intervista pubblicata all’inizio del ’75 su Playboy, di cui riproponiamo ampi stralci, un ritratto a più facce del leader radicale.


Playboy - Quanti anni hai, Marco?

Pannella - Quarantacinque. Sono nato nel segno del Toro, a Teramo, in Abruzzo. Mi chiamo Giacinto Marco, Giacinto come un mio zio sacerdote, un personaggio abbastanza insolito, in quella che era la tipica famiglia agraria meridionale, dove al primogenito spetta il diritto di occuparsi degli affari della casa, mentre il secondo fa il prete, e gli altri diventano notaio o farmacista, si “sistemano” in vario modo. Questo zio si fece prete, e però continuò a occuparsi dell’amministrazione delle terre, rimase insomma il classico capofamiglia. Era l’unico che avesse interessi culturali. Pubblicava una rivista, una cosa del tutto artigianale e provinciale che però, per un caso strano, e con una certa commozione, ho poi ritrovato in biblioteche specializzate, a Parigi e a Vienna.

Il mio don Giacinto ebbe fra l’altro un gesto abbastanza audace per quei tempi. Quando mio padre, che aveva voluto fare l’ingegnere e aveva studiato a Torino e poi a Grenoble, tornò a casa con la moglie francese (nata in Svizzera, figlia di albergatori), una donna che non parlava altro che la propria lingua e aveva i capelli corti in un paese dove tutte le donne li avevano ancora raccolti a crocchia sulla nuca, e indossavano vesti nere lunghe fino ai piedi, lui capì che doveva aiutare la giovane coppia piombata in un mondo diverso e difficile: così scorporò la parte di proprietà che spettava a mio padre, e gli dette qualche possibilità. E potrebbe anche darsi che io non abbia animosità anticlericali per questo semplice dato di cronaca, perché la persona migliore della mia famiglia era questo clericale; e ho sempre avuto ottimi amici preti. Sono un laico, tranquillamente, senza lotte interiori o problemi.

Playboy - Da quanti anni sei in politica? Si ha l’impressione che tu ti occupi di politica da sempre.

Pannella - L’impressione è esatta. Credo d’aver capito, già piccolissimo, che non ci può essere divorzio fra vita pubblica e vita privata, che i fatti della vita privata diventano occasione per fare politica e quindi vita pubblica. Io sono cresciuto per i primissimi anni fra Teramo e Pescara. Un’infanzia normale, con molte donne, zie, contadine, che mi accudivano, e giochi e allegria. Però in quella normalità, in quella felicità, c’erano piccole cose di grande importanza. Un certo calzolaio antifascista, dove non si doveva andare, io avevo tre o quattro anni. Beveva, dicevano che era per questo che non ci si poteva andare, però si capiva che il male era che urlasse contro il fascismo. Mia madre che in casa parlava francese, e c’era sempre qualche notabile che veniva a dirle che non si doveva fare, non era bene, bisognava stare attenti: ma se il francese era la sua lingua! Io avevo una compagna di giochi, si chiamava Adria, era il mio primo grande amore, avrò avuto sette, otto anni. Bene, un giorno non si vide più. Scomparsa. Era figlia di ebrei, e la sua famiglia aveva lasciato il paese.

 

Io passavo dei periodi in Francia presso un “instituteur”, per imparare, ed ero adorato da tutti e due, marito e moglie; però fra loro litigavano a morte, e così io ero sempre in mezzo, a volte prendendo le parti dell’uno o dell’altra. Persino decidevo se dormire col marito o con la moglie. Mi ricordo che mi chiedevo perché quei due, che si facevano reciprocamente una vita d’inferno e che separatamente erano persone così amabili, dovessero continuare a vivere insieme. Significava già, forse, porsi sia pure in maniera rozzissima il problema del divorzio, ribellarsi all’idea che due siano legati per sempre perché un giorno hanno deciso di sposarsi… Significava, forse, ribellarsi alle costrizioni, rivendicare il diritto di essere antifascista, di parlare la propria lingua, ribellarsi all’ingiustizia della discriminazione razziale.

Sono fatterelli, come vedi, però servono a dimostrare quello che ho sempre detto, che vita privata e vita pubblica sono un tutt’uno. Difendere la propria “privacy”, che vuol dire? Io non vedo dove essa cominci e dove finisca…

Playboy - Infatti ti accusano di non avere una vita privata.

Pannella - E’ sempre l’esperienza personale, privata, che si trasforma in politica e ti dà la forza per combattere le battaglie. Prendi per esempio quella per la legalizzazione dell’aborto; o quella per il divorzio. Le persone che ci credono, che ci hanno creduto, partono dalla politica, o dall’esperienza della vita privata? Io dico sempre che le leggi non devono affondare solo nei giorni, ma anche nelle notti. Contano le verità che hanno radici nella tua storia. Capisci cosa voglio dire? Tanto più “privati” certi fatti m’appaiono, tanto più pubblici e politici cerco che siano riconosciuti. E quella eterna polemica fra amore e amicizia, che grosso equivoco! Dire che con la ragazza puoi chiavare e con l’amico devi parlare, vuol dire dividere in due la propria vita. Un’assurdità.

 

Playboy - E a un certo punto sei entrato nella politica…

Pannella - Ma no, ma no, ho fatto sempre politica a modo mio, e il modo è stato sempre lo stesso: l’interesse per gli altri, il dialogo. Ero studente, a Roma, uno studente un po’ avanti perché mia madre nel suo desiderio di perfezione aveva preteso che saltassi due anni, e un giorno ho visto in edicola Risorgimento Liberale. L’ho comperato, mi ha interessato. Mi pareva che ci fosse quello che più amo, la libera discussione intelligente. Da quel giorno ho sempre comperato due copie di Risorgimento: una per me, e una per i miei compagni di scuola, perché la leggessero e ne discutessero, e portassero le loro obiezioni e esponessero le loro idee… Così io e alcuni altri abbiamo cominciato a frequentare via Frattina, dove era la sede del Pli, piano piano ci siamo avviati in quella direzione che poi è stata la sinistra liberale.

 

Eravamo ragazzi, gli stessi ragazzi che andavano a giocare a pallone o a ballare con le ragazzine, che cioè avevamo quella che tu, che voi chiamate vita privata, ma una vita privata che coincideva con quella pubblica. Perché dialogo, per me, è qualcosa di complesso e completo, non unicamente “spirituale”: dialogo sono anche le carezze, come i baci e i pugni e gli amplessi, oltre alle belle idee. Il mio manifesto, il manifesto dei radicali, ci viene da un grande poeta, Rimbaud: “Le raisonnable dérèglement des sens”, il ragionevole sregolamento dei sensi. Una frase “anti maudit”: Rimbaud aveva intuito quello che i cibernetici hanno intuito a livello scientifico. Il dramma era la ragionevolezza. Anche per noi radicali è così.

Playboy - Quei ragazzi, dunque, bazzicavano coi grandi, stavano a sentirli e cercavano di recepire, dei loro discorsi, quello che appariva più vero. E tu, in mezzo a essi, probabilmente eri uno pieno di sacri furori…

Pannella - Oh, no. Soltanto un po’ ardente. Ma in un modo diverso dai sacri furori, che fanno sempre pensare a qualcosa di cupo, di introverso; a una voluttà di martirio. Io sono un estroverso, sono uno che ama la vita, per nulla tormentato, per nulla bruciante. “Route de braise et non de cendre”, diceva un poeta. Non la fiammata che brucia e lascia inutile e triste cenere, ma la brace, che dura a lungo.

 

Playboy - Quei ragazzi, certo, discutevano le opinioni dei grandi.

Pannella - Qualche volta oggetto di discussione, non di polemica. Io già allora parlavo molto, e - credo - con un certo potere di persuasione. Forse lo esercitavo anche su di loro. O forse essi erano, in fondo, abbastanza aperti, abbastanza comprensivi. O forse esasperati di sentirmi discutere senza arrabbiarmi. Del resto, nemmeno loro si arrabbiavano mai. E poi, una tesi di laurea l’ho presa, no? A Urbino, con un voto bassissimo: 66. Scelsi Urbino perché pareva che lì avrei potuto fare presto. Discussi per tre ore, con undici professori. La tesi era, guarda un po’, sull’articolo 7 del Concordato, quindi da discutere c’era abbastanza. Come vedi ho sempre le stesse idee. Fin dal principio. Un noioso, uno che si ripete, sempre lo stesso disco. […]

Playboy - Come tutti i ragazzi, tu certo leggevi molto. Quali sono le matrici ideologiche, voglio dire di pensatori del passato, o le correnti di pensiero, da cui poi è scaturita la tua battaglia?

Pannella - Io non credo nelle ideologie, non credevo nelle ideologie codificate e affidate ai volumi rilegati e alle biblioteche e agli archivi. Non credo nelle ideologie chiuse, da scartare e usare come un pacco che si ritira nell’ufficio postale. L’ideologia te la fai tu, con quello che ti capita, anche a caso. Io posso essermela fatta anche sul catechismo che mi facevano imparare a scuola, e che per forza di cose poneva dei problemi, per forza di cose io ero portato a contestare.

Posso dire che sono stati importanti cinque o sei aforismi di Nietzsche sul bene e il male; e Gozzano, guarda un po’, e la “Sonata a Kreutzer”. Un certo numero di Esprit del 1947, trovato a Modane aspettando un treno. La “Storia dell’età del barocco”, di Croce. Un poeta, St. Jonn Perse, da leggere come si legge un’enciclopedia, e che tutti trovano difficile da leggere perché conosce troppi termini. Thomas Mann, aedo della borghesia. I miei compagni leggevano Marx, ti citavano immediatamente la quarta o la quinta risposta a Feuerbach. La segnalazione che si fa liturgia o litania. Io non ho letto Marx, ma ne ho preso quello che mi occorreva. E poi proprio bambino ho letto i grandi romanzi russi, trovandomi sempre un po’ a disagio coi patronimici, ma cavandomela benissimo, perché in realtà anche nel romanzo classico non c’è bisogno di un intreccio.

Ma quello da cui ho imparato molto sono i giornali. Perché nei giornali c’erano idee che non apparivano, forse per le loro posizioni, cioè per essere collocate a fianco del fatto contingente e minuscolo, avulse dal presente. Leggere un settimanale, un quotidiano, è importante perché ne ricevi idee che prendono corpo dentro di te, che diventano te stesso. Ho letto Il Mondo e Risorgimento Liberale.

 

Playboy - C’è stato un anno, un tempo, particolarmente bello, significativo per te?

Pannella - Tutti gli anni sono belli. Quest’ultimo per esempio, che doveva essere l’anno dell’assassinio politico del Partito radicale, è l’anno della sua vittoria, l’anno del referendum per il divorzio. Ma ogni anno è bello, perché ogni anno si fa qualcosa, con i comizi, con gli “happening”, con le azioni individuali e collettive, con le parole, con i gesti, cantando e agitandosi, senza un attimo di sosta perché fermarsi un attimo significherebbe tornare indietro di giorni e giorni. Ogni anno è bello perché io sono felice di fare quello che faccio, di digiunare e di sentirmi dare del Gandhi da strapazzo, di firmare i fogli degli extraparlamentari nei quali non ho mai creduto ma che hanno diritto di avere i loro giornali, di difendere gli obiettori di coscienza anche quando si tratta di fascisti cretini, di urlare, di perdere la voce e la salute, persino felice che femministe diano, a me, dell’antifemminista…

Playboy - Dell’antifemminista a te, il “paladino delle donne”?

Pannella - Ma sì. Perché io mi sono battuto come mi sono battuto per l’aborto, ecco che allora si accorgono che do fastidio, che cioè mi sono impadronito di temi e argomenti e battaglie che sono le loro… Vedono ancora in me il rappresentante dell’uomo, il “maschio” che strumentalizza la donna fingendo di difenderla, il prevaricatore. Non sono tutte le femministe, naturalmente, che dicono così, ma solo alcune fra esse, quelle che hanno ancora residui maschilisti. Diciamo che sono delle femministe che commettono errori. Le donne, errori non ne commettono. Lo hanno dimostrato al momento del referendum, perché è chiaro che per il divorzio hanno votato anche quelle che di emancipazione non sanno e non vogliono sapere.

 

Playboy - Tu trovi giuste tutte le rivendicazioni delle donne?

Pannella - Io trovo giuste tutte le rivendicazioni delle minoranze. Così mi batto per la liberazione della donna come appoggio il Fuori e chiunque abbia qualcosa da dire e si senta oppresso, così il nostro partito è il rifugio di fuorilegge del matrimonio e di obiettori di coscienza, di femministe, di freaks e di abortisti, di vegetariani e nudisti, insomma “avanzi di galera” di ogni tipo. Tutte le minoranze si devono difendere, nessuna ha la priorità sulle altre. Io difendo anche chi è buttato in carcere solo perché è fascista, perché l’etichetta non mi interessa, mi interessa che si tratti di una minoranza alla mercé della strapotente maggioranza. E ho difeso più volte le minoranze extraparlamentari con tutte le loro intemperanze, pur sapendo che mi consideravano al di fuori, uno con idee utopistiche, un borghese. Quelle che non posso approvare sono le minoranze al potere, perché subito loro campo privilegiato diventa la violenza: per me, per noi radicali, ogni fucile è nero, come ogni esercito e ogni istituzionalizzazione della violenza, contro chiunque la si eserciti.

Playboy - Tu difendi anche la droga, l’erba “particolare”.

Pannella - A me personalmente l’erba non interessa. Io ho la mia, che è la nicotina. C’è dentro di me un’autostrada di nicotina e catrame, dentro la quale viaggia quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige e ottiene. Certo mi pare logico fumare altra erba meno nociva, se piace, e rifiutare di pagarla troppo cara. La mia “erba” è sempre stata la mia spesa più grossa. Mi posso impegnare come m’impegno contro quel casino che chiamano l’Ordine per difendere l’erba e chi la fuma, ma fare di questa un segno positivo e definitivo mi pare sbagliato.

Playboy - Non riconosci in te matrici ideologiche; riconoscerai dei maestri, si saranno degli uomini politici, italiani o stranieri, dai quali hai imparato qualcosa…

Pannella - Non riconosco dei maestri perché non ne ho avuti, e le persone che per me hanno contato non volevano certo essere maestri. Due vite hanno determinato la mia. Le vite di due persone che sono morte, una quando era giusto che morisse, perché non aveva più speranza ed era convinta di aver finito: l’altra, in un momento ingiusto, quando molte delle sue previsioni si avveravano. 

Parlo di Mario Pannunzio e di Ernesto Rossi. Il Partito radicale è fatto di tutto quello che dicevano Pannunzio e Rossi.

Pannunzio era la moralità, non il moralismo, il suo rigore era ciò che io amavo, anche stilistico, quando ci predicava di ispirarci a Flaubert. La sua indifferenza al potere, il maggiore insegnamento. Era un politico, se politico è colui che muta l’organizzazione della città, se politico è colui che incide nel proprio tempo. E chi, anche nel passato, ha inciso nel proprio tempo? Dicono: Mattei, Vanoni. Vanoni e Mattei hanno creato forse qualcosa a livello degli oggetti, ma in realtà ciò che Enrico Mattei, il demiurgo degli anni 50, ha lasciato, è la “realpolitik” della corruzione; a Vanoni alcune buone soluzioni di meccanismo di controllo politico. Niente che abbia inciso, come appunto Pannunzio e Rossi, anche dai loro amici, dai loro compagni, mai considerati dei veri politici.

 

Playboy - Ma Ernesto Rossi, davvero tu lo consideri un politico?

Pannella - Eccome. Lui, così lieto, della letizia di un fanciullo, di esistere, aveva previsto tutto: il corporativismo di Stato, la mano pubblica che dà profitti alla mano privata. Lui così innocente aveva individuato che si andava incontro alla sconfitta storica.

Playboy - Non avevano molto in comune, in apparenza…

Pannella - Erano due borghesi con una qualità insolita per un borghese, il disinteresse per il denaro. Perché di denaro non avevano bisogno. Non avrebbero saputo come spenderlo. Il consumismo non era affar loro…

Playboy - Tu dici “borghesi”. Talvolta ti danno del borghese come un insulto.

Pannella - Non vedono il borghese come lo vedo io, cioè colui che si ispira, che dà corpo alle grandi idealità della rivoluzione francese. Certo, sono un borghese, e felice di esserlo.

 

Playboy - Dicono che se fossi un mistico potresti trascinare dietro di te folle in preghiera.

Pannella - Già. Ma non lo sono. E non amo trascinare, bensì convincere. Il dialogo, l’ho già detto. Il dialogo con quelle stesse parole sempre: conoscersi e riconoscersi.

Playboy - E dicono anche che spesso e volentieri sei un po’ gigione.

Pannella - Certo. Quando parlo in un comizio, quando scelgo in mezzo alla folla piccola o grande che mi guarda quei tre o quattro visi, so di fare teatro, cultura. E la gente cosiddetta “umile” mi capisce più dei politicizzanti. Ma io credo nella cultura, non nella natura. Il Buon Selvaggio di Rousseau mi fa ridere. La chiarezza, la purezza, la limpidezza dell’infanzia? Ma la chiarezza, la purezza, la limpidezza del patriarca michelangiolesco! Lo stato di natura è una condizione ambigua.

Playboy - Ma tu hai tempo di pensare alla tua vita?

Pannella - In verità non molto. Il mio problema è trovare un attimo di solitudine. La mia casa è sempre piena di gente, tutti possono entrarci quando vogliono usare le mie cose. Raramente, rarissimamente riesco a dormire solo. I politici invece sono sempre soli. Guardali quando escono dalla Camera, buttano giù un pasto cauto o ingordo e poi cercano un cinema dove sdraiarsi a sonnecchiare in attesa di andare a dormire. Soli, tetri, scontenti dell’esistenza, incapaci di dialogare perché incapaci di attenzione, sicuri di aver ragione, di essere il meglio mentre gli altri sono il peggio: sicuri che il Paese è immaturo, non loro.

 

Io vorrei talvolta un po’ di solitudine, anche per pochi momenti, e non certo per andare al cinema. Ma alla mia vita, del resto, non ho bisogno di pensare. Ne sono contento. Io amo la vita, amo i piaceri che la vita e la gente ti danno. La solitudine potrebbe servire per leggere di più, io ora leggo tre, quattro, dieci minuti al massimo, mi rileggo le stesse cose che poi cito a uno, a dieci, a venti persone, o, quando faccio politica, a cento, a mille: e sono sempre quelle citazioni, come una signora che mostra sempre gli stessi monili. Però sono letture che sono entrate dentro di me, diventano mia carne e mio sangue, e che io ora dò agli altri.

Certo, vorrei farne altre, ma quando? Eppure se c’è qualcuno che deve per forza vedermi, non so, un amico che passa per Roma per due ore, uno che ha assolutamente bisogno di vedermi, io riesco in qualche modo a quadrare tutti i miei appuntamenti, anche se sembrava che non ci fosse spazio libero, e faccio venir fuori quei pochi minuti che mi occorrono. Un’operazione che mi riempie di soddisfazione, che mi fa credere in me stesso non affidato al caso. […]

Playboy - Mi puoi dire in che cosa credi, in che cosa non credi?

Pannella - Non credo nel potere prima di tutto. Credo nella gente. Il mio movimento, i radicali, propongono tutti questi referendum. Siamo sicuri di vincere. Siamo sicuri di ottenere l’ottanta per cento dei voti favorevoli, siamo sicuri che a ognuno farà più piacere mettere la propria firma per un certo numero di referendum che per uno solo. L’ottanta per cento delle persone è profondamente d’accordo con noi, però non lo sono le istituzioni, e da qui viene quella dicotomia che ci tormenta. Ma combattiamo sicuri di vincere. La nostra forza è di esprimere quello che si chiama il sentimento comune della gente. E credo nella parola che si ascolta e si dice, dovunque, a scuola, a letto, nelle strade, nelle piazze, mentre non credo nell’invettiva, come non credo nei testi sacri o nelle ideologie.

 

Appello ai serbi, Zagabria, 29 dicembre 1991

A guerra d’indipendenza croata in corso, dopo la dichiarazione d’indipendenza dalla Jugoslavia e dopo che sono esplosi i conflitti etnici  tra serbi e croati in regioni, come la Slavonia o la Krajina a maggioranza serba, in cui avevano fino a quel momento convissuto pacificamente, una delegazione di militanti radicali si reca in Croazia per condurre un’iniziativa di pace. Di Pannella questo “appello ai serbi”.

Cari amici serbi, noi sappiamo, e ripetiamo in ogni occasione, con il massimo di convinzione e di passione, che voi siete oggi le prime, maggiori vittime della politica che il regime di Belgrado e gran parte del mondo hanno convertito in guerra, violenza, intolleranza, antidemocrazia. Non solamente perché muoiono per questo migliaia di ragazzi arruolati nell’esercito divenuto golpista, serbi, macedoni, bosniaci, montenegrini, ma perché muoiono, soffrono, piangono, odiano la loro stessa vita mentre sono costretti a mettere a ferro e fuoco territori abitati da loro fratelli e sorelle, ad ucciderli, a costringerli a esodi che ricordano le pagine più nere della storia di questo secolo.  
 
Noi sappiamo che l’anelito verso la democrazia delle donne e degli uomini di Serbia, identico a quello nostro e di tanta parte del mondo, è oggi soffocato e irriso. La stessa pretesa “serba” di esigere garanzie per le minoranze serbe nelle altre repubbliche, e di negarle in radice per le minoranze albanesi, croate e di ogni altra lingua e storia, nel vostro paese, è espressione di una visione violenta, aggressiva, intollerante che non manca di manifestarsi con sempre maggior forza anche all’interno della normale vita politica, sociale, culturale del vostro paese. (…)  
 
Il Partito Radicale per anni è stato fra di voi, clandestinamente, per animare e affermare la sua fraternità con gli oppressi da una dittatura per forza di cose incompatibile con la tolleranza, con la democrazia politica, con una Europa della libertà e della giustizia, della nonviolenza e della pace.  Oggi – secondo gli insegnamenti di Gandhi – il Partito Radicale sceglie di essere accanto ai popoli aggrediti con la guerra, a fianco della violenza delle vittime contro la violenza degli aggressori. Alcuni di noi, per questo, saranno in servizio di prima linea non armato fra i difensori delle città e delle popolazioni croate, animati da solidarietà e da amore per la vita, diritti anche di coloro che al fronte sono costretti ad ammazzare, a usare violenza, abusivamente in vostro nome e per vostro conto.

Come voi, noi speriamo (e lottiamo) per una Serbia, grande per civiltà, per democrazia, per tolleranza, per cultura, per giustizia, per rispetto degli altri, europea, confederata con gli altri liberi popoli dell’ex Jugoslavia, associata all’Unione europea. Viva il popolo democratico serbo, viva la democrazia politica, viva l’Europa federata e pacifica, viva l’amicizia e la fraternità nella libertà, nell’interdipendenza democratica e europea, di serbi, croati, sloveni, albanesi, macedoni, montenegrini, di italiani, tedeschi, ungheresi, rumeni, austriaci, bulgari, greci, bosniaci, voivodini, del Kossovo…

 

 

Al convegno “Giustizia! In nome della legge e del popolo sovrano”, Roma, 28 luglio 2011

Contro la malagiustizia, contro le ingiuste detenzioni e le oppressioni del sistema carcerario, per l’amnistia: fino all’ultimo, una delle  battaglie politiche di Marco Pannella.

Vedete, anche oggi riproponiamo il problema dell’amnistia, dopo che per più di trent’anni in sede istituzionale e con dibattiti riproposti – gli atti parlamentari lo testimoniano in modo indiscutibile – lo abbiamo indicato come strumento essenziale per interrompere un processo di moltiplicazione all’ennesima potenza dei momenti giudiziari, fino appunto a negarli, come accadeva già dal diritto romano, ma anche nel diritto canonico. L’ho già detto e sono stato equivocato: nella giuridicità dell’Inquisizione, nel potere temporalissimo della Chiesa, del Papato, cosa accadeva? Si dice che l’amnistia veniva concessa “ogni morte di Papa” e questo corrispondeva a saggezza perché era finalizzata a consentire non dico una compattezza, ma certamente almeno una continuità fra l’evento imputato e imputando e il giudizio e quindi fra la verità storica e la verità giudiziaria. C’è un momento nel quale appunto, anche all’interno del diritto canonico, si passa attraverso una sospensione. Il termine Inquisizione è un termine che finalmente nobilita il procedimento di tipo giudiziario e giurisdizionale, invece di lasciarlo confuso in altri, con funzioni o pretese più eterne, senza entrare troppo nel particolare. (…)


Cominciamo con il chiarire: noi diciamo amnistia, e lo ripetiamo da trent’anni, innanzitutto come strumento per i magistrati, per evitare – allora lo dicemmo – che accadesse con la moltiplicazione dei processi penali quello che qualche anno dopo noi prevedevamo sarebbe accaduto per il debito pubblico e subito prendemmo iniziative parlamentari. Ma delle due cose – del pericolo del moltiplicarsi dei processi con l’obbligatorietà dell’azione penale, a tal punto da non essere più gestibili dall’amministrazione della giustizia, e poi della certezza di un automatico esponenziale ingigantirsi del debito pubblico – l’Italia non ha saputo mai nulla ed erano le cause che oggi spiegano la crisi della giustizia e del diritto, della vita del diritto nel nostro paese, e la crisi economica attuale. Oggi il presidente della Repubblica sicuramente sarà andato a sentire che notizie c’erano sui debiti pubblici, nostro e altrui, ma su questo il sessantennale sistema italiano partitocratico, sempre più gravemente tale, e non democratico, non Stato di diritto, non è servito al paese, è stato solo funzionale alla crescita esponenziale di quegli andamenti tendenziali che ci inducevano già all’inizio degli anni 80, con Crivellini, a proporre il 7 per cento di rientro annuale del debito. Nessuno l’ha saputo, tranne noi.


Ugualmente, nessuno sapeva fino a che punto sarebbero arrivati questi processi, con l’obbligatorietà dell’azione penale che va rispettata. Ebbene, siamo arrivati a questo, alla insostenibile situazione attuale. Allora devo dire al ministro Alfano – è noto che io ho avuto simpatia per lui, ho avuto fiducia, Rita Bernardini poi tanta gliene ha fatta, in modo motivato – che l’ultima notizia che ci ha dato, per rincuorare chi gli faceva fiducia, è che nell’anno precedente, limitatamente ai processi civili, c’era stato il 4 o il 5 per cento di riduzione. A quel livello significa che ci vorranno quindici-diciotto anni per riprenderci, mentre però c’è una situazione strutturale che continua a proporre in realtà quello stesso andamento. Allora la nostra proposta è che occorra immediatamente ricorrere ad un’amnistia, quella da “ogni morte di Papa”, quella necessaria per alleviare e rendere di nuovo possibili un minimo di compattezza e direi di contiguità fra l’evento di rilevanza legale e il giudizio. E’ un problema di fondo, di vita, della nostra società. Così semplice! No, nulla. (…)

 

Allora, cominciamo a dare dei dati precisi. Amnistia e prescrizione, che rapporto c’è? Scusatemi, ma non vi accorgete che sono i pubblici ministeri che realizzano l’amnistia strisciante annuale? I dati del ministero ci dicono che 200.000 all’incirca sono le prescrizioni all’anno e tutti quanti diciamo: questa è un’amnistia vergognosa, di classe... No, stiamo attenti, perché il ministero ci dice anche, per stabilire una media ogni anno, che su 200.000 archiviazioni 140.000 – è la media – le chiedono i pm perché il reato è prescritto. Dunque, una parte sostanziale di quell’amnistia strisciante di massa che è la prescrizione viene operata direttamente dai pm. Sono loro che selezionano i fascicoli, anziché la prescrizione breve o quella lunga, tutta quell’altra storia, che dovrebbe dipendere dal Parlamento! E’ un fatto strutturale, è una necessità vitale. Ma perché questo avviene? Per l’impossibilità sistemica, materiale, di poter perseguire, stando al principio della obbligatorietà dell’azione penale, tutto ciò che si dovrebbe perseguire.

Questo è un lascito post-rivoluzionario napoleonico che la monarchia ha subito raccolto, per amministrare la giustizia come una giustizia di Stato, funzionariale, con il giudice, una parte dei giudici che sono funzionari di Stato, non importa se del Re o della Repubblica. Dopo il fascismo si è stabilito il principio dell’obbligatorietà anche perché continuasse a inverarsi socialmente, sociologicamente, culturalmente questa concezione della giustizia come realtà statuale, statalista, burocratica nel senso migliore della parola; e insieme ad essa il problema di garantire l’indipendenza, problema che si pone con tanta maggiore enfasi soprattutto quando e dove ci sono la realtà di dipendenza oggettiva. Allora si spiega perché poi in Francia si siano un po’ meno preoccupati della indipendenza da garantire, fedeli a quel principio per il quale nemmeno la giustizia deve ritenersi un momento di discendenza divina e sacrale e deve anche essa essere in qualche misura sottoposta al principio democratico e alla concezione dello Stato di diritto, con tutti i guai piccoli o grandi che accadono. (…)

 

Se noi letteralmente sprechiamo le risorse in procedimenti e processi che non vedranno mai una fine diversa se non la prescrizione (200.000 l’anno in dieci anni sono 2.000.000, più le altre che non si calcolano), si tratta di una cattiva gestione del denaro pubblico. L’amnistia consentirebbe di chiudere questo inutile spreco strutturale, fatale, di danaro e di risorse umane, per impiegarlo più fruttuosamente per i processi che realmente destano allarme sociale e che meriterebbero di arrivare a termine. Ogni procedimento o processo che nasce, anche con la sola apertura di un fascicolo, ma che non si chiude con una sentenza nel merito, è denaro pubblico e tempo buttati via, giustizia distrutta, elusa, strutturalmente impedita. E’ uno spreco enorme! Centinaia di milioni di euro ogni anno in procedimenti e processi che si chiudono necessariamente con la prescrizione. (…)

Per chi dobbiamo pensare alla giustizia? Per la grande maggioranza, per l’immensa maggioranza del piccolo ceto medio, quello popolare, per tutti coloro per i quali avere la prima volta a che fare con la giustizia è già un elemento traumatico; certo, non per quelli che sono degli habitués, quelli che possono insegnare – li conosciamo – ai loro avvocati un po’ tutto, perché sono lì da cinquant’anni, da sessant’anni. Anche se i diritti umani dovrebbero valere anche per loro. E nessuno di loro dovrebbe essere neppure escluso dall’articolo 27 della Costituzione, se la Costituzione fosse tenuta in qualche conto e non fosse, per tutti, ignorata e calpestata. (…)

 

 

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Cosa c’è da fare? Per i liberali, se c’è il tiranno, il tirannicidio è la soluzione di tutto. A noi però questo non poteva bastare e noi oggi l’abbiamo compreso e l’abbiamo già anche praticato con Ciampi, per esempio, quando l’arroganza di regime – sempre fondata sui precedenti, le consuetudini, quelle balle lì, come fonti di legge – gli negava di esercitare il potere di grazia che la Costituzione indubbiamente gli attribuiva. A quel punto noi ritenemmo che il presidente Ciampi potesse chiedere aiuto al popolo. Lui disse: “Io vorrei graziare quello” – era Sofri – “ma qui mi dicono che il processo è duale e non è più mio”. E noi accorremmo, dicendo che quello era un grido di aiuto che il Capo dello Stato rivolgeva ai cittadini. Questo è il riflesso del non violento. Il potere si atteggia a nemico e mostra di considerare spesso come nemici coloro che vogliono le riforme. Ma qual è la risposta non violenta? Noi diciamo: guarda, noi ti chiediamo soltanto di rispettare la tua propria legalità. Anche tu non puoi negare la necessità delle riforme. Non siamo i tuoi nemici, non mostriamo i muscoli, anzi noi vogliamo trasmettere a te, dentro di te, la forza di rispettare la tua propria legalità. Noi siamo interessati a che tu difenda la legge e invece sei tu, proprio tu che non riesci a rispettarla, perché poi anche il dittatore realizza qualcosa che ha scritto lui, o che gli hanno scritto, ma sempre interpretandolo in modo arbitrario, secondo le esigenze del momento. (…)

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